Caratteristiche della Passione di Gesù secondo Marco


Passione di Gesù secondo Marco
È ormai opinione di tutti gli studiosi della bibbia che alla base dei racconti della Passione e risurrezione dei 4 evangelisti ci sia un racconto originario scritto pochi anni dopo i fatti. Lo scopo di questa prima redazione era di dare ai cristiani un documento in cui contemplare il volto di Amore di Dio per l’umanità. Poi da questo testo originario ognuno dei 4 evangelisti ha sviluppato il suo testo, a servizio della catechesi per i suoi fedeli.
Marco è stato il primo tra gli evangelisti a preparare il così detto “Vangelo”. Il suo è il più semplice dei quattro e per quanto riguarda i racconti della passione riprende quasi alla lettera il testo originale. Prova ne è che, nel raccontare i fatti, egli parla sempre di “Sommo sacerdote”, non ne riporta mai il nome, perché quando fu fatta la prima redazione di questo racconto, Caifa era ancora in funzione, quindi non lo vuole nominare direttamente.
Marco nel preparare la sua redazione dei fatti, specialmente nell’introdurre quei pochi particolari che lo caratterizzano, ci vuole invitare a riflettere sulla passione d’amore che Dio ha per ciascuno di noi, che si adempie in Gesù che è colui che è il mite, l’umile, il sofferente.
Un primo dettaglio che troviamo solo in Marco è che lui mette in risalto il modo molto umano in cui Gesù vive questa prospettiva della morte che lo aspetta. Gesù è descritto come molto spaventato e che “cominciò a sentire paura e angoscia”. Diceva loro: “La mia anima è triste fino alla morte”. Solo Marco usa queste parole forti. Di solito gli storiografi antichi presentavano la fine dei loro “eroi” come quella di uomini sprezzanti del pericolo e della morte, che affrontano con coraggio. Gesù ha pianto, ha avuto paura. Lui amava questa vita, ha cercato qualcuno che gli stesse vicino.  Questo è consolante per noi perché Lui non è un superuomo ma un nostro compagno. Tutti noi ci spaventiamo di fronte alla morte e se non siamo capaci a vivere questo momento alla luce di Dio, possiamo perdere il controllo. Gesù ci insegna a vivere questi momenti di angoscia pregando. Solo Marco, riferendo la preghiera di Gesù nel Getsemani, riporta l’appellativo “Abba”. È un termine caro ai bambini che esprime la tenerezza nei confronti del papà. La stessa parola Gesù l’aveva posta sulla nostra bocca con la preghiera del Padre nostro. Anche nelle situazioni più assurde, non dobbiamo mai dubitare che Dio è vicino e ci ama; lui è “abba” e ha in mano le sorti della nostra vita. Questo lo possiamo capire solo pregando.
Nel racconto di Marco, al momento dell’arresto, non c’è alcun riferimento a due gesti presenti negli altri. Qui Gesù non dice alcuna parola dopo il bacio di Giuda e poi non reagisce quando uno dei presenti mette mano alla spada. Tutti gli evangelisti riportano parole di Gesù a Giuda e a Pietro. Marco ci presenta un Gesù che non si ribella di fronte agli avvenimenti che stanno accadendo, e commenta poi solo dicendo: “si adempiono così le scritture”. Vuol presentare alle sue comunità un Gesù mite e disarmato. Chi ha accolto la proposta del nuovo regno di Gesù, chi vuol vivere un’umanità nuova, deve sapere che dovrà affrontare ipocrisia e violenza, ma come potrà reagire? Come Gesù! In modo mite e arrendevole. Così il gesto di estrarre la spada è talmente lontano dai criteri evangelici che non merita neanche di essere commentato.
Tutti gli evangelisti riportano che dopo l’arresto di Gesù, i discepoli si diedero alla fuga. Marco ha il particolare che anche un piccolo ragazzo spiava i fatti e mentre fugge perde il lenzuolo che lo copriva. Di solito si interpreta il fatto dicendo che quel ragazzino sia Marco stesso, la cui famiglia abitava lì vicino. È probabile ma questo piccolo particolare ha anche un valore simbolico. Il termine usato è “giovinetto”, usato solo qui e al momento della risurrezione. Il giovanetto era avvolto da un lenzuolo “Sindone”, come quello del giovinetto (angelo) del sepolcro. I soldati non riescono a catturare il giovane ma rimangono con in mano solo il lenzuolo, non la sua persona. È quello che è successo con Gesù, le guardie riescono a catturarlo ma nelle loro mani non rimane che il velo che lo copre (il suo corpo fisico), la sua “persona” sfugge con la resurrezione. Alla conclusione della nostra vita, cosa trattiene di noi il mondo? Le nostre spoglie, non la nostra persona. Quello che è accaduto a Gesù è ciò che accade a ogni suo discepolo.
Nel racconto della passione di Marco Gesù sta sempre in silenzio di fronte a tutte le domande degli accusatori. Durante il processo, dalla bocca di Gesù non esce alcuna parola, né di fronte agli insulti, né alle menzogne. Sa che hanno già decretato la sua morte per cui non vale la pena di abbassarsi al loro livello. C’è chi rimane in silenzio per paura, un silenzio brutto, ma c’è anche un silenzio che è segno di forza, di chi non si scompone di fronte all’arroganza perché è convinto della propria lealtà e sa che la causa per la quale si sta battendo, alla fine, trionferà. Il cristiano, per difendersi, non ricorre mai ai mezzi impiegati da chi lo osteggia, segue la linea dettata dalla sua coscienza.
Tutti gli evangelisti rilevano che le folle si distanziano ora da Gesù e Gesù rimane solo. Marco è quello che più di tutti mette in evidenza questa solitudine. Negli altri evangelisti, accanto a Gesù c’è sempre qualcuno: Giovanni ha Maria e il discepolo, Luca ha le donne lungo il cammino, e poi il buon ladrone, Matteo è il più vicino a Marco ma ha almeno la moglie di Pilato che cerca di convincere il marito a lasciar perdere Gesù. In Marco, lungo tutto il racconto, non c’è mai nessuno. Solo alla fine dirà che alcune donne osservavano da lontano. Nonostante la gloria del giorno delle Palme, è stato abbandonato da tutti. Il suo grido “Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato” assume allora ancora più senso. Si sente sconfitto. Chi si impegna a vivere nel mondo nuovo da uomo coerente, deve mettere in conto che nei momenti cruciali può essere abbandonato da amici o famiglia. In quei momenti si potrà lanciare lo stesso grido di Gesù.
Il momento culminante della Passione di Gesù e di tutto il vangelo di Marco è la conversione, ai piedi della croce, non di un Giudeo ma del centurione, un romano. La sua frase è la risposta a una domanda che ha attraversato tutto il vangelo: “Chi è costui?” Nei vari racconti di miracoli, nessuno riesce a comprendere la sua identità e quando qualcuno cerca di proclamarla, come ad esempio gli indemoniati, Gesù glie lo impedisce. Gesù non vuole che si confonda la sua identità di Messia e di figlio di Dio con i miracoli che fa. Il vero volto di Dio sarà rivelato in pienezza solo qui sul Calvario.
Il centurione è colui che guida i soldati che hanno ucciso Gesù. Vedendo come Gesù muore, esclama: “Costui era veramente il Figlio di Dio”. Da qui in poi tutti noi possiamo proclamare che il volto di Dio è rivelato in pienezza nell’amore di Gesù che muore per l’amore che ha per noi.
È in questo contesto che anche Marco introduce il dettaglio del velo del tempio che si squarcia. Il verbo usato “squarciarsi” è lo stesso usato al Battesimo quando si dice che i cieli si squarciano per permettere alla voce di Dio di manifestarsi. Ora la pace fra cielo e terra è ristabilita. Ora sono cadute tutte quelle barriere che impedivano il contatto diretto tra Dio e gli uomini.
Dopo la morte Giuseppe d’Arimatea chiede il corpo di Gesù. Solo Marco rileva che si è trattato di un gesto coraggioso. Dichiararsi discepoli di Gesù mentre tutti lo acclamano, è facile; ma presentarsi come tale di fronte a chi lo ha condannato, esige molto coraggio. Spesso i discepoli diventano incostanti, deboli, quando è necessario professare la propria fede di fronte a chi non la accetta e, pur di non venire derisi, si adeguano facilmente a scelte che sono ben lontane dai valori di Gesù.
In Gesù vediamo la vittoria della debolezza e dell’umiltà sulla violenza e sul potere.

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