Porta e Pastore: con Lui l'unica libertà
La porta per andare
dove? (Gv 10,1-10) 4° domenica del tempo di Pasqua, Anno A
Quando parliamo di Buon Pastore ci viene subito in mente
un’immagine molto conosciuta nella tradizione cristiana, almeno qui in Italia:
il Pastore con la pecorella in spalla. Essa non si riferisce al brano che
abbiamo letto oggi e va subito chiarito che il racconto di oggi non è una
parabola come quella raccontata da Luca circa il pastore che va in cerca delle
pecora smarrita, ma è una serie di allegorie. Qual è la differenza? Una
parabola è un racconto e l’insegnamento che Gesù vuole dare attraverso di essa lo
si coglie dal senso della storia; un’allegoria, invece, è un paragone, e la si
comprende se la persona si immedesima negli elementi dell’esempio portato. Oggi
si parla di pastore, di porta e di ladri. Allora bisogna chiedersi: chi è la
porta? Chi è il Pastore? E fin qui tutto è facile dato che Gesù stesso ci dà la
soluzione dicendo “Io sono …”. Il nodo scottante sta nel rispondere alla
domanda: chi sono i ladri o briganti di cui Gesù parla? Alla fine della prima
provocazione di Gesù, l’evangelista sottolinea che gli ascoltatori non avevano
ancora capito a chi si riferisse. Poi, quando continua con gli altri paragoni, gli
ascoltatori si rendono conto che sta parlando di loro e allora si infuriano e
cercano di screditarlo davanti alla folla.
Chi sono questi ascoltatori? Sono i Farisei, i capi del
popolo e i sacerdoti del tempio. La disputa si svolge a Gerusalemme, vicino al
tempio; siamo durante la festa delle capanne, la festa della luce, quella in
cui Gesù ha guarito il cieco nato (brano che abbiamo commentato qualche
settimana fa) e in cui Gesù si è presentato come “luce del mondo”. Quindi le
allegorie di oggi servono proprio per aprire gli occhi a questi ascoltatori
ciechi.
L’inizio è brusco, subito diretto. “Chi, invece di entrare dalla porta, scavalca il recinto o il muro è un
ladro venuto per rubare o uccidere”. Il “recinto” di cui parla non è mai un
ovile come noi siamo abituati a vedere, cioè uno steccato che chiude un pezzo
di terra entro cui le pecore pascolano liberamente. La parola usata da Gesù in
questa allegoria ricorre 177 volte nel AT e va tradotto con “cortile”, “atrio”,
e spesso si riferisce all’atrio del tempio. Gesù vuole indicare quello che era
il centro della religiosità ebraica, l’atrio in cui sono educate le persone e in
cui viene loro insegnata una falsa religione che è un furto, perché la classe
sacerdotale che si presenta come mediatrice delle grazie del Signore, ne ricava
cospicue somme di denaro per se stessa. Essi sono falsi “pastori” che tengono
chiusi i loro seguaci nel recinto delle false convinzioni religiose.
Questa immagine non è qualcosa di nuovo. Era molto comune
nell’AT, e anche in tutto il medio Oriente, definire i capi del popolo, specialmente
il re, come “Pastori del popolo”; solo che, nel mondo antico, i re erano
presentati come pastori buoni, invece nell’AT spesso troviamo che essi sono chiamati
“pastori malvagi” che invece di fare gli interessi del popolo lo sfruttano. Nell’AT
il termine “pastore buono” è sempre riferito a Dio e al Messia.
I ladri scavalcano il recinto mentre chi entra per la
porta è il pastore delle pecore e “a lui
il guardiano apre”. Quindi c’è anche un guardiano che sorveglia la
sicurezza delle pecore. Chi è questo guardiano che riconosce la voce del
pastore? È la coscienza dell’uomo. Siamo fatti bene e sappiamo riconoscere
immediatamente chi ci vuole bene e chi, invece, ci vuole sfruttare. La
coscienza ci mette in guardia e denuncia la falsità di chi va contro Cristo.
L’obiettivo del pastore è portare le pecore alla libertà:
“Le conduce fuori dai recinti”; è lo
stesso verbo usato quando Mosè “fece uscire” il popolo dall’Egitto:
letteralmente è “uscire dalla strettezza verso spazi ampi e liberi”.
Quando si ascolta la parola del vangelo, nel profondo del
cuore sentiamo una voce che dice: questo è vero lui vuole per te la vera vita.
Poi dopo che ha spinto le pecore fuori dal recinto, Lui “cammina davanti a loro”. Gesù non
sopporta che le pecore stiano rinchiuse dentro quel cortile, allora le libera
e, come Dio nel deserto aveva camminato davanti al suo popolo, anche Lui
cammina davanti alle pecore per condurle alla vita.
Questi recinti, prigioni, strutture, che erano presenti
nel mondo giudaico di allora, sono presenti ancora oggi: quali sono?
Un primo recinto da cui dobbiamo sbarazzarci noi oggi è
la serie di pratiche formali, esteriori che, invece di liberarci ci rendono
schiavi perché il formalismo interiore soffoca il contatto vero di cuore e di
mente con Dio.
Poi abbiamo la falsa immagine di Dio, che troppo spesso vediamo
ancora come Padrone, Legislatore che impone un codice e che alla fine ci punisce
o premia a secondo del nostro comportamento. Dio ama in modo incondizionato e,
solo a partire da questo amore, le persone si sentono spinte ad amare a loro
volta; di fronte all’immagine del padrone rigido, molti sono scappati dalla religione.
Poi ci sono i recinti degli idoli che condizionano tutte
le fasi della nostra vita; il denaro che non ti permette di vedere chi è di
fronte a te; i vizi, la corruzione morale, il potere; il venire a compromessi
su tutto pur di raggiungere il potere, il piacere, l’avere.
Poi ci sono le ideologie che schiavizzano l’uomo. Oggi,
più che mai, le persone vengono plagiate nei modi più sottili, e sappiamo bene come
è difficile far ragionare chi è plagiato dalle ideologie politiche e vede tutto
in un'unica direzione, chi non riesce ad avere una visione aperta dei fatti.
Poi c’è il recinto del “così fan tutti”, del voler
seguire ciò che fanno le star, le persone di successo (cantanti, attori,
sportivi).
Poi ci sono i modelli culturali che in molti ambienti
ancora sottomettono la donna, sfruttano i poveri, rifiutano gli stranieri,
rovinano i bambini.
Se scendiamo a un livello più personale, ci sono i
recinti dei rimorsi per i nostri errori, che ci impediscono di gioire e di
guardare avanti: Gesù, quando incontra le persone, non guarda mai al passato;
guarda avanti e invita a camminare con fiducia verso il futuro.
Ci sono i recinti dei rancori che vogliono far pagare
all’altro i torti che ha commesso contro di me. Questo toglie la gioia del
perdono.
Ognuno di noi ha tanti recinti che lo bloccano, e solo la
voce del pastore ci può liberare. Gesù è venuto per tirarci fuori da tutti
questi recinti per portarci verso la libertà.
“Le pecore non
seguono un estraneo”. Il giudizio su chi è il vero pastore e chi è “ladro” è
pronunciato dalle pecore stesse, perché siamo fatti bene e istintivamente
capiamo chi dice il vero e chi imbroglia, anche se poi abbiamo paura di fare le
scelte giuste.
A questo punto ci aspetteremmo che Gesù dica: “Io sono il buon pastore”, invece lui dice:
“Io sono la porta delle pecore”.
Attenzione! Gesù ha detto: porta “delle
pecore” non “del recinto”. Lui
non ha niente a che vedere con quei recinti di cui abbiamo parlato sopra, ora le
pecore sono già fuori, ma, per raggiungere la vera vita non devono limitarsi a
seguirlo ma “passare attraverso di lui”.
Lui è l’ingresso al mondo vero, il mondo della libertà. La libertà non è fare
quello che si vuole; chi pensa così è schiavo degli istinti. La vera libertà si
guadagna passando attraverso Cristo che in un altro passaggio aveva detto: “Sforzatevi di passare dalla porta stretta”
stretta perché chiede perdono, amore ecc. Tutte le altre proposte di vita sono
tranelli.
“Tutti quelli che
sono venuti prima di me sona ladri e briganti”. Tutte le proposte di vita
fatte prima erano dei brigantaggi, perché erano tutti racconti di violenze
guidati dalla legge del più forte, dallo spirito di competizione e lotta,
negazione della fraternità; tutte le proposte diverse da quella del vangelo
sono brigantaggi.
E noi: che tipo di recinti ci tengono ancora prigionieri?
Che pastore seguiamo? E cosa ci aspettiamo da Lui: che ci porti alla vera
libertà o solo alla soddisfazione di qualche nostro desiderio?