Toccare per credere: l'esperienza di Tommaso e degli altri


Domenica della misericordia. Gv. 20:19-31

Oggi è la domenica della Misericordia, la festa istituita da San Giovanni Paolo II seguendo le  indicazioni date da Gesù a S. Faustina Kowalska. Riflettere sulla Misericordia è riflettere sull’Amore di Dio per ciascuno di noi e sulla nostra risposta a tale amore. Domenica scorsa abbiamo presentato 3 persone innamorate di Gesù che sono andate al sepolcro. Il brano di oggi parla della sera dello stesso giorno. Gli Apostoli sono chiusi in casa con le porte sbarrate per la paura. Sono i 10 perché mancano Giuda e Tommaso. Sembra che Tommaso non abbia paura e si sia allontanato momentaneamente in cerca di risposte ai suoi dubbi. Chiaramente, il discorso che Gesù fa in quell’occasione riguarda tutti i discepoli di Gesù, anche noi.
“Per paura dei Giudei”. I Giudei, nel vangelo di Giovanni, rappresentano tutti coloro che si oppongono alle teorie e alle proposte di Gesù e quindi oggi potrebbero riguardare tantissime categorie di persone. Spesso anche noi, come gli apostoli, abbiamo paura dell’opposizione, del confrontarci con chi la pensa in un modo diverso, allora la tentazione è di isolarci perché non sappiamo rispondere agli interrogativi che ci vengono posti, non sappiamo spiegare le ragioni della nostra fede. Ma la paura è sempre un pessimo consigliere; in passato, spesso anche tanti uomini di Chiesa hanno smesso di dialogare e hanno preferito imporre le idee; c’era paura della libertà di coscienza, delle scoperte scientifiche e mediche, ecc. Anche oggi le paure non mancano, in una società sempre meno cristiana e sempre meno propensa ad accettare le scelte impegnative del vangelo. Basti pensare alle scelte che si fanno quando si parla di famiglia, di consumismo, ecc.
Di fronte a questa società i discepoli possono essere tentati di arroccarsi, temendo di essere ritenuti retrogradi, e quindi rinunciare ad essere “sale e luce per il mondo”.
Come mai i discepoli il giorno di Pasqua hanno paura? Non avevano ancora fatto l’esperienza dell’incontro con il risorto. Anche tra di noi ci sono molti che potremmo definire semplici ammiratori delle idee di Gesù, ma coloro che veramente hanno “visto” il risorto sono pochi.
Quella sera “Gesù viene e sta in mezzo a loro”. Non dice che “Gesù appare, si fa vedere e scompare”. No! La sua è una presenza che rimane nella comunità dei discepoli, questo cambia tutto. Come cambia la vita di una comunità parrocchiale o religiosa quando ci si rende conto della presenza continua del risorto, ma anche nelle famiglie.
Quando il Risorto si manifesta dice: “Pace a voi” e poi mostra le sue mani. Non è un gesto apologetico come se volesse mostrare la sua umanità risorta. Quello che i discepoli hanno di fronte non è il Gesù che torna ad essere la stessa persona di prima tornata in vita: No! La resurrezione è entrare nel nuovo mondo di Dio. Allora perché mostra le mani e il costato? Di solito una persona la si riconosce dal volto. Quelle mani sono la rivelazione delle mani di Dio. Nell’AT si parla spesso delle mani di Dio, come d’altronde facciamo anche noi nel nostro linguaggio. Le mani indicano le opere che uno compie. Spesso usiamo le mani in senso minaccioso, cadere nelle mani di…, non sfuggirai alle mani di… . Ma per Gesù si parla sempre dei prodigi compiuti dalle sue mani.  Altre volte vediamo Gesù che prende i bambini tra le sue mani o li accarezza, li benedice; le sue mani lavano i piedi ai discepoli. Le mani di Gesù rappresentano il servizio, il dono d’amore. Poi mostra il costato da cui sono usciti sangue ed acqua. Sangue è la sua vita, l’acqua è la vita nuova, la vita di Dio che ci è donata.
La carta d’identità di ogni “figlio di Dio” non è impressa nel volto ma nelle mani che agiscono solo per amore.
“Allora i discepoli gioirono a vedere il Signore”. Avevano pensato che la sua vita fosse stata un fallimento e invece scoprono che l’amore vissuto non è stato cancellato.
gioirono nel vedere” “ἰδόντες, il verbo è “Orao”. Domenica scorsa avevamo visto i tre verbi usati per esprime l’esperienza visiva dei discepoli: “blepo”, vedere il materiale, poi “theoreo”, cioè vedere oltre, riflettere, e ultimo “Orao” che è quello che Giovanni usa per dire che i discepoli vedono con lo sguardo dell’amore. I discepoli si sono resi conti di un nuovo modo di essere presente in mezzo a loro. È una presenza che vale anche per noi oggi, ma di cui dobbiamo prendere coscienza, altrimenti non si riesce a superare tutte le paure che ci caratterizzano.
Poi il risorto dice: “Come il Padre ha mandato me anch’io mando voi”. Ora li invita ad uscire, a non avere paura. Li manda al mondo a mostrare le loro mani che devono essere come le sue, mani usate per la vita non per la morte, mani che costruiscono un mondo di pace, mani che rendono presenti le mani invisibili del Signore. Le persone devono poter vedere dall’opera delle nostre mani, l’opera di Dio.
Gesù aveva potuto agire così perché era mosso dallo Spirito, allora nella sera di Pasqua Lui passa questo Spirito ai discepoli. La frase usata è “ha soffiato dentro di loro il suo alito”. Soffiare è il verbo della creazione e il verbo di Ezechiele, dove lo Spirito soffia sulle ossa e ridà loro vita. È l’uomo nuovo che viene creato in noi dal dono dello Spirito Santo. Qui abbiamo già un’anticipazione della Pentecoste che Giovanni non avrà occasione di presentare più tardi. D’altronde durante l’ultima cena aveva promesso che avrebbe mandato lo Spirito Santo che “li avrebbe guidati”.
A coloro a cui rimetterete i peccati saranno rimessi e a coloro a cui li riterrete resteranno non rimessi”. Il Concilio di Trento vede in questo passo la creazione del sacramento della riconciliazione. Queste parole, hanno però anche il significato di “far scomparire il mondo ingiusto”; le loro mani devono portar via non solo il peccato in sé, ma anche tutto quello che esso genera nel mondo.
Quella sera mancava Tommaso. Otto giorni dopo c’è anche lui e qui abbiamo una scenetta molto bella.
Ogni personaggio ha un suo modo di porsi di fronte a Gesù. Tommaso rappresenta chi fa difficoltà ad accogliere il messaggio, chi vuole prove razionali. Tutti i vangeli dicono che, dopo la risurrezione, Gesù sottolinea i dubbi che gli apostoli ancora hanno; quindi Tommaso non è solo, tutti hanno avuto dei dubbi. Tommaso diventa il simbolo di questa difficoltà che i discepoli hanno avuto e spesso anche noi abbiamo ad accogliere l’idea del risorto. È possibile accoglierlo oggi? È ancora vivo?
Nel presentare Tommaso, l’evangelista lo chiama sempre “Didimo”, che vuol dire “il gemello”. Di chi? Noi siamo i suoi gemelli, non solo perché gli somigliamo. Tommaso non assomiglia a chi si allontana dalla Chiesa disprezzando gli altri e si chiede superiore, e neppure a chi si dice scandalizzato di ciò che succede nella Chiesa. Lui non abbandona la Chiesa, mantiene i legami con essa, e al momento opportuno lo ritroviamo in essa. Lui rappresenta chi si allontana un momento per delle difficoltà, ma ha creduto nelle idea di un mondo nuovo. Ci sono persone che hanno dedicato anni della propria vita, hanno speso ore di lavoro e di apostolato, ma poi in un momento di scoraggiamento o di delusione si allontanano. Qualcuno, di fronte a certe manifestazioni di potere e di ricchezza da parte di chi, invece, dovrebbe testimoniargli amore e servizio, si trova fuori posto ed esce; non disprezza, ma con tristezza si sente fuori e non vede l’ora di tornare nella comunità perché sa che lì c’è Qualcuno che tiene unita la comunità con il suo progetto.
Gli altri apostoli avevano già visto il risorto la sera di Pasqua e gli “dicevano”: “noi abbiamo visto”. Il verbo “dicevano” è all’imperfetto, un’azione continuata, insistente. Portano la loro esperienza ma non ci sono prove, solo l’esperienza personale. Com’è l’esperienza personale pasquale di Tommaso?
Otto giorni dopo”. Si parla della domenica, Gesù sta in mezzo a loro nel giorno del Signore. Qui si vuole sottolineare l’importanza della celebrazione comunitaria che già ai tempi in cui è stato scritto il vangelo si faceva durante il “Giorno del Signore”. Anche il saluto che Gesù fa: “Pace a voi” è quello che, chi presiedeva la liturgia domenicale, offriva ai primi cristiani. Il risorto dona sempre la pace, mai il rimprovero.
Poi dice a Tommaso: “Metti qua il tuo dito, metti la tua mano nel mio costato”. Immaginate l’imbarazzo di Tommaso in quel momento, la gioia mista al senso di colpa, alla vergogna, alla curiosità. Quello di Gesù non è un rimprovero, ma un chiedergli di realizzare quello che è stato il suo desiderio: toccare le ferite. Gesù sembra volergli dire: “Tieni il tuo sguardo sempre fisso su queste mani e su questo costato”. Se noi teniamo sempre presente cosa hanno fatto quelle mani allora cambia il nostro modo di essere e di agire. Come farlo? Nell’Eucarestia. Gesù si presenta come pane di vita, alimento di vita e nel “giorno del Signore” dobbiamo fare ciò che ha fatto Tommaso, entrare in contatto con Gesù, fare esperienza della sua presenza.
La professione di fede di Tommaso è la più bella che troviamo nella bibbia, messa proprio sulla bocca di chi aveva fatto fatica a credere: “Mio Signore e mio Dio”. Il vangelo è stato scritto ai tempi dell’imperatore Domiziano che si presentava come Signore e Dio nell’Impero e iniziava tutti i suoi decreti dicendo: “Io, vostro Signore e Dio, decreto che …”. Tommaso, invece, dice a Gesù: “Tu sei il mio Signore e il mio Dio”. Da quel momento non avrà più dubbi e diventerà un apostolo delle genti. Una tradizione vuole che lui sia andato a convertire la Persia, un’altra vuole che si sia recato nel sud dell’India e lì ci sono Chiese che fin dal secondo secolo si rifanno a Lui come fondatore.

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