Chiamati a portare Dio al mondo


Siamo tutti chiamati a portare Cristo al mondo. Lc 1,39-45
Se leggiamo il brano del vangelo di oggi in modo superficiale, cioè ponendo attenzione solo alle parole della storia che narra, ne avremo una bella lezione di servizio, umiltà da parte di Maria che pur essendo incinta affronta un lungo viaggio per andare ad aiutare la parente Elisabetta. Questa, però, è una lettura molto riduttiva e anche un po’ problematica.
A quei tempi era impensabile che una ragazza partisse da sola per un viaggio così lungo e pieno di rischi, tanto più se era incinta, inoltre non aveva molto senso per una ragazza senza esperienza andare ad aiutare una donna che di esperienza ne aveva senza dubbio più di lei e che comunque viveva in un villaggio vicino alla capitale dove poteva procurarsi tutti gli aiuti possibili ed immaginabili. Ricordiamo, inoltre, che Elisabetta è moglie di un sacerdote del tempio per cui era di famiglia agiata e poteva permettersi di pagare qualsiasi tipo di serva o professionista. Infine, c’è scritto che dopo tre mesi, cioè subito dopo il parto, Maria ritorna a Nazareth, cioè riparte proprio nel periodo in cui Elisabetta ha più bisogno di aiuto?
L’importanza del viaggio di Maria è molto più di quella indicata del servizio. Per comprendere il valore biblico e teologico di tale viaggio dobbiamo fare un salto indietro nell’Antico Testamento ed esatamente al primo e secondo libro di Samuele. Lì si parla dell’«arca dell’alleanza», cioè del baule dove erano custodite le tavole della legge di Mosè e che rappresentavano la presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Quest’arca fu rubata dai Filistei (1 Sam 6) e le cose si misero male per gli Israeliti. Quando poi gli Israeliti riuscirono a recuperarla, la trasportarono attraverso le colline di Giuda e la lasciarono per circa venti anni nella casa di Abinadàb (in quei tempo Israele non era ancora un regno). Solo venti anni dopo (2 Sam 6), Davide, che nel frattempo aveva conquistato Gerusalemme, decide di portare là l’arca, ma lungo il viaggio, presi da timore per la potenza di Dio la lasciano nella casa di Obed-Edom. C’è scritto che in entrambe le case l’arrivo dell’arca procurò a quelle famiglie pace e prosperità. Ebbene, il modo in cui Luca presenta il viaggio di Maria, richiama in molti dettagli il viaggio dell’arca. Maria è la nuova arca, perché porta dentro di sé non le tavole della legge che rappresentavano l’alleanza antica, ma Gesù che è venuto a instaurare la nuova alleanza. È interessante il fatto che quando nel 5° secolo d.c. fu costruita una chiesa nel villaggio di Elisabetta (Ain Karim), questa fu dedicata a Maria “Arca della nuova alleanza”.
Ecco lo scopo del viaggio di Maria: portare Gesù ad Elisabetta e soprattutto a Giovanni perché Giovanni e Gesù rappresentano rispettivamente la porta e il compimento della nuova alleanza.
Quello di Maria è anche il compito di tutti noi. Veniamo qui in Chiesa, ci nutriamo della Parola di Dio e del Corpo di Cristo; ebbene, questo Dio che conserviamo in noi dobbiamo portarlo “senza esitare” a tutto il mondo. Il mondo ha bisogno di incontrare Cristo e noi siamo chiamati ad essere i tramiti di questo incontro.
Maria entrando in casa saluta Elisabetta. Possiamo pensare che abbia utilizzato il saluto normale degli Ebrei, cioè “Shalom”, pace. Fate attenzione che la parola Shalom, nella cultura semitica, non è mai intesa come mancanza di qualcosa (guerra o litigi), ma come presenza di qualcosa. Come può una persona essere in pace se non ha cibo da mangiare, non ha i beni necessari per la sua vita (vestiti, casa, lavoro, ecc.)? Come può considerarsi in pace se non ha una famiglia numerosa e amici con cui condividere la vita? Quindi la parola Shalom è prima di tutto un augurio di prosperità, di serenità, di amicizia. La presenza di Maria in quella casa porta con sé tutte quelle grazie e benedizioni che l’arca aveva portato alla casa di Abinadàb e Obed-Edom.
Noi, quando incontriamo le persone, in virtù del Cristo che portiamo dentro, dobbiamo portare loro serenità, aiuto, vicinanza, “pace”. Le persone, incontrandoci, devono fare la stessa esperienza della presenza di Dio, che ha fatto Giovanni, che nel grembo della madre esulta perché finalmente ha riconosciuto il suo ruolo nel mondo.
Anche Elisabetta ha riconosciuto in Maria questa presenza straordinaria e quindi la chiama “benedetta” che non è una lode, ma un dire “Dio ha fatto in te qualcosa di grande”. Dalla nostra vita, dalla nostra gioia, deve trasparire l’azione che Dio sta svolgendo in noi. Papa Francesco ha inserito la parola gioia in tutti i suoi documenti come ragione d’essere o stile di vita dei cristiani. Il mondo d’oggi, per essere provocato a cambiare attitudine e rivedere le sue priorità, ha bisogno della testimonianza gioiosa dei cristiani piuttosto che della predica dei preti.
Qual è la chiave per fare un salto di qualità nel nostro essere cristiani? Come riuscire a testimoniare gioia nonostante che ogni giorno affrontiamo difficoltà e controversie? Come riuscire ad essere fedeli a Dio in un mondo fortemente secolarizzato, ateo, che in ogni momento ci attira a scelte anti-evangeliche? La risposta è nelle ultime parole di Elisabetta: “Beata colei che ha creduto all’adempimento delle parole del Signore”.
Maria confermerà questo con le parole del Magnificat che reciterà subito dopo.  Quello che avviene nel mondo non ci deve scoraggiare, ma anzi, deve essere un invito ad un impegno ancora maggiore perché come dice Don Orione: “Non siamo di quei catastrofici che credono che nel mondo tutto va male; alla fine Cristo vincerà e Lui vince sempre nella Carità”. San Paolo, nella lettera ai Romani (8), parlando delle tribolazioni dice: “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi? … Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, la spada, il pericolo, la morte? In tutte queste cose siamo più che vincitori in virtù di Colui che ci ha salvati”.
Il Natale è l’occasione per noi tutti per credere che Gesù viene per me, per stare con me, per condividere con me la sua missione. Noi abbiamo bisogno di Lui e Lui ha bisogno di noi.

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