Il cammino salutare delle sconfitte. 2

Nella tua debolezza mostrerò la mia forza

- 2 parte


Alcuni aspetti biblici


L'incarnazione: il verbo che si fa muto.
Dio ha deciso dall’eternità di salvarci, lui, l’Onnipotente. Sarebbe bastato che schioccasse le dita e con un miracolo tutto sarebbe stato risolto; e invece no. Ha scelto la via più difficile, la più complicata, quella più vicina a noi e forse per questo la più incomprensibile: Si è fatto uno di noi.
La parola italiana “Infante” che viene utilizzata per riferirsi a un bambino piccolo, deriva dal latino infans che significa colui che non sa ancora parlare. In quel momento, nella culla di Betlemme Gesù ci sta presentando uno dei misteri più grandi della nostra fede, e lo fa attraverso la povertà e incapacità di parlare. Dio si è reso in balia degli uomini.
Aveva una missione grande da compiere, ma per trent’anni si chiude in un piccolo villaggio sconosciuto della regione meno apprezzata della Palestina: la Galilea. In tutto l’Antico Testamento non c’è un solo accenno a Nazareth, e lo storico Giuseppe Flavio, che nomina ben 400 villaggi della Galilea, non ne fa cenno.
Ha fatto tanti miracoli per curare le persone, ma quando si è trattato di fare quello vero, quello per cui è venuto: la nostra salvezza, preferisce pagare di persona, passare attraverso il rifiuto e la morte.


Giuseppe, ombra di padre...
Chi ha lavorato con lui non è stato trattato meglio. Prendiamo ad esempio Giuseppe, giovane falegname di Galilea.
Pensate che non abbia sognato anche lui come tutti i giovani del suo tempo di formarsi una bella famiglia, di avere dei figli ecc. Eppure quando sembra averne la possibilità perché ha conosciuto una brava ragazza, questa gli dichiara di voler rimanere vergine e più tardi di essere incinta per opera di Dio. Lui dovrà essere il “padre - non padre” di quello che sarà il suo unico figlio. E c'è di più. Da devoto ebreo, Giuseppe è cresciuto con la formazione tipica della sua religione che ritiene Dio inavvicinabile. Ricordiamo Mosè ed Elia che si coprono quando vedono Dio; (Es, 32,20; 1Re 19,12); Isaia che teme di dover morire per aver visto l’angelo di Dio (Is 6); i due servi di Davide che muoiono perché toccano l'arca dell'alleanza (2 Sam.6,6-7). Eppure ora lui deve accogliere nella sua casa il Figlio di Dio e dargli protezione, educazione, ecc. Certamente il dubbio di Giuseppe narrato da Matteo, non è un dubbio sull'onestà di Maria ma un dubbio sulla sua capacità e dignità di accogliere nella sua casa l'inviato di Dio e prendersi cura di Lui. Ecco dunque la risposta dell'angelo. Non temere, è parte del piano di Dio e Tu dovrai dargli il nome cioè la possibilità di inserirsi a pieno titolo nella società umana.
Penso di poter dire che da buon papà e falegname, Giuseppe abbia vissuto i mesi della gravidanza di Maria preparando la casa, una culla ecc. tutto in ordine per accogliere Gesù nel migliore dei modi. Chi non lo farebbe? Eppure al momento giusto deve lasciare tutto e andare a Betlemme dove non trova nessun riparo degno per sua moglie e il bambino e deve accontentarsi della capanna e mangiatoia. Senza dubbio avrà provato vergogna quando i pastori prima e i magi dopo si sono presentati ad onorare il bambino, avrà detto: “Che figura, sono un padre incapace di dare una dimora alla mia famiglia”. E poi devono fuggire e potranno tornare a Nazareth solo molto più tardi. Chi si mette nelle mani di Dio con semplicità deve accettarne i giochi, ma soprattutto deve accettare il fatto che sarà sempre uno strumento indegno.

Beati (voi) poveri (di spirito) (Mt 5; Lc 6)
Gesù inizia il suo apostolato e la formazione dei suoi discepoli nel modo più sconcertante. Tutti si aspettavano in lui il liberatore venuto a risolvere i loro problemi ed ecco che lui inizia dicendo: beato i poveri, gli affamati ecc.
Ci sono alcune chiarificazioni da fare sul testo:
"Beati i poveri di spirito", o "Beati voi poveri"?
"Il regno dei cieli" solo una promessa di felicità dopo la morte?
Senza dubbio Matteo dà un taglio molto più spirituale e generale al discorso mentre Luca è interessato ai problemi concreti della gente che ha di fronte. Chi dei due riporta le parole esatte di Gesù? Non stiamo ad approfondire la questione che ci porterebbe lontano, prova ne siano le centinaia di libri scritti sull'argomento. D'altronde crediamo che i Vangeli siano Parola di Dio al di là del fatto che riportino le parole esatte di Gesù, e soprattutto crediamo che sono Parola di Dio scritta per noi oggi, quindi sia nella frase di Matteo che in quella di Luca troviamo qualcosa per noi.
Chi erano i poveri al tempo di Gesù?
I poveri sono coloro che non possono appoggiarsi su se stessi, devono dipendere da altri per la loro sicurezza. In questo senso la parola povero era usata spesso anche per significare umile o mite. Forse è in questa direzione che possiamo leggere la frase di Mt 5,3, anche se subito dopo abbiamo “Beati i miti”, quel “poveri in spirito” si riferisce forse più a umiltà, mitezza, afflizione. La prima, seconda e terza beatitudine sono quindi molto vicine tra loro. Gesù ha comunque chiaro che queste situazioni si trovano soprattutto tra chi vive nella povertà fisica e molto difficilmente tra i ricchi.
In tutto l'Antico Testamento si trovano in continuazione frasi che indicano che Dio si prenderà cura del povero, egli sarà la sua vendetta ecc. I poveri sono quindi in posizione privilegiata per fidarsi di Dio. In questa categoria possiamo racchiudere le donne, i bambini, coloro che per motivi razziali o di religione erano messi da parte o anche perseguitati. Verso di loro Gesù ha sempre mostrato una preferenza particolare perché è venuto a portare loro il messaggio di liberazione preannunciato da Isaia e ribadito da Gesù all’inizio del suo apostolato.
Spesso Gesù parla di povertà come accusa verso la ricchezza più che come valore in sé, però è molto esplicito nel dire al giovane ricco di abbandonare tutti i suoi averi per seguirlo.
Naturalmente bisogna intendere bene i termini e non confondere la povertà con la miseria. Un giorno mons. Helder Camara disse: Dio ha benedetto la povertà ma non la miseria. Egli richiede a tutti noi di essere poveri, non miseri.
Povertà di spirito e povertà materiale sono legate l’una all’altra e si esigono a vicenda. Lo scopo di entrambe è quello di accrescere la fede in Dio ed essere meglio a sua disposizione nel suo piano di amore. Non riusciremmo mai ad amare una persona veramente senza una povertà interiore. Chi ama rinuncia al possesso di se stesso per dare.
Un Teologo Francese, Varillon, commentando questo passo del vangelo dice che quando uno si mette nell’ottica delle beatitudini e cerca di vivere quell’atteggiamento di umiltà, di dipendenza da Dio, necessariamente le sue mani si aprono e lasciano andare tutte le ricchezze che ha per andare in contro alle necessità degli altri. Per cui chi vuol vivere della povertà evangelica non deve tanto sforzarsi di essere povero quanto piuttosto di amare e automaticamente diventerà anche povero materialmente.

Ai poveri è annunciato il Regno dei cieli. (Lc 7,22, Mt 11,5)
Il contesto di questa frase è messianico. Alcuni dei discepoli di Giovanni il Battista vanno da Gesù per chiedergli se esso sia il Messia e lui come segno dà questo: ai poveri è annunciato il Regno dei cieli. Gesù sta citando la profezia messianica di Isaia 61,1-2. Col suo modo di parlare, Gesù sembrerebbe quasi dire: finora la buona novella è stata annunciata solo a chi aveva la capacità di ascoltarla, di capirla, ora le cose cambiano. È un primo cambiamento di tendenza sociale che ci si deve aspettare in queste parole. Se però questo cambiamento riguarda il modo in cui Dio agirà, i poveri sono i suoi preferiti, ma non ancora i suoi strumenti.

Ti rendo grazie padre perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. (Lc 10,21)
Qui siamo già un passo avanti rispetto a Lc 7,22. Qui si dice chiaramente che Gesù parlò sotto l’influsso dello Spirito Santo, e parla quando i settantadue discepoli che aveva mandato a predicare nei villaggi ritornano contenti per il lavoro fatto. Il cambiamento sta appunto in questo, Gesù comincia servirsi di altri per predicare, ma non sceglie come collaboratori gli incaricati tradizionali e ufficiali (Farisei, scribi, o responsabili delle Sinagoghe), ma della gente comune che lo ha seguito (pescatori, contadini ecc.). Quindi i poveri non sono più solo i destinatari ma anche gli artefici dell’annuncio, e per poveri non si intende solo quelli mancanti di mezzi materiali ma anche quelli mancanti di istruzione.

Lungi da me Satana… tu non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini (Mt 16,21-23).
Sicuramente ricordiamo l’episodio: Pietro ha appena manifestato la sua fede in Gesù “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” e Gesù l’ha appena nominato pietra di fondazione della Chiesa. Poi Gesù passa a spiegare come realizzerà la sua missione di Messia: dovrà scendere a Gerusalemme, essere arrestato e ucciso. La sua passione e morte non è un incidente di percorso ma una scelta ben precisa, tanto che Pietro, che vorrebbe obiettare che un vero Messia dovrebbe essere un vincitore, si prende del Satana. Subito dopo c’è l’invito per tutti a prendersi la propria croce e seguirlo.
Su questo passaggio non ci sono chiaramente secondi sensi: chi vuol seguire Gesù deve passare dalla via della croce, non quella della gloria.
Chiede di rinnegare se stessi. Non vuol certo dire non voler essere se stessi ma non dare troppa retta alle nostre passioni, alle nostre voglie, ai nostri desideri, alle nostre paure; sublimare tutti questi per renderli consoni al modo di pensare di Dio

Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini ... (Mt 18.5).
Gesù scandalizza i suoi discepoli. Non solo perché rinuncia a un momento di comodità e riposo per ascoltare e benedire dei bambini, ma soprattutto perché i bambini al suo tempo erano considerati un nulla, coloro che non sapevano parlare propriamente ecc. Dal momento della nascita il bambino era affidato alla mamma che si preoccupava di dargli le prime elementari forme di educazione. Sua occupazione principale era quella di giocare per le strade con i suoi compagni. Era solo all'età di dodici anni che il padre iniziava a dare tutta la formazione religiosa necessaria, e il ragazzo veniva ricevuti ufficialmente nella società.
Eppure qui Gesù invita gli apostoli a diventare come bambini.
Chi sono i bambini?
Il bambino è il semplice, colui che si fida, Il bambino è aperto a scoprire il mondo, non si ferma tanto a ragionare ma si butta con entusiasmo. Il bambino vede nel suo papà tutto il meglio e non lo paragona a nessun altro.
Ancora una volta, quindi si richiede la fiducia in Dio, frutto, questa volta, della semplicità di vita.

Non possiedo né argento né oro ma quello che ho te lo dono: Nel nome di Gesù il nazareno alzati e cammina. (At. 3,6)
Qui abbiamo un miracolo di Pietro. Niente di particolare, uno dei tanti raccontati nella bibbia, ma a me ha colpito quella frase: "Non ho né argento né oro, ma quello che ho te lo dono". Questa frase va al cuore di ogni tipo di apostolato. Cosa ci preoccupiamo di donare agli altri? Medicine, libri, soldi ecc. sono tutte cose belle e indispensabili ma siamo sempre sicuri che non prendano il posto dell'Unico indispensabile, cioè Dio? Un giorno una persona mi disse con un certo senso di amarezza: Quando un cristiano vuol ricevere i sacramenti del matrimonio o del battesimo va dagli ortodossi perché le cerimonie sono più solenni, quando vuol mandare a scuola i figli o ha bisogno di un dottore o di un altro tipo di aiuto va dai cattolici perché le loro organizzazioni sono più efficaci, ma quando vuol pregare va dai protestanti. Spesso possiamo diventare dei filantropi, ma da qui a essere cristiani c'è ancora tanta strada da fare.
Una domanda curiosa: Cosa sarebbe avvenuto se Pietro avesse avuto dei soldi nelle sue tasche al momento in cui incontrò lo storpio? Forse sarebbe stato felice di poterglieli dare, soddisfatto lui di aver aiutato un povero e soddisfatto il povero di aver ricevuto dei soldi, ma l'indomani tutto sarebbe tornato come prima. Non posso credere che Luca nel riportare i fatti abbia accennato alla frase di Pietro solo per puro dovere di cronaca. Se quella frase è lì ha un senso profondo.
Chi è l’autore del nostro apostolato? Noi o Dio?

Ti basta la mia grazia... (2Cor 12,9)
Quando sono debole è allora che sono forte. (2Cor 12,10)
Gli esegeti dicono che alcune parti della seconda lettera di San Paolo ai Corinzi sono quella “lettera scritta tra le lacrime” a cui accenna in un’altra parte. In essa Paolo, più che altrove si trova ad analizzare le lotte, i contrasti, le debolezze che hanno caratterizzato momenti del suo apostolato. Alla fine, l’apostolo ne è uscito forse più stanco, ma senza dubbio rinvigorito nella fede.
Colpisce quella frase che Paolo riporta come frase del Signore: Ti basta la mia grazia perché nella tua debolezza posso mostrare la mia forza. Forse un Paolo più forte, con meno problemi sarebbe stato apostolicamente meno efficace di quello che abbiamo nella bibbia.
Come non pensare a tante persone che dal letto del dolore e anche della morte hanno saputo dare una testimonianza di vita che ha convertito molte più persone di quante ne abbiano fatte le nostre prediche, e come non pensare a noi stessi anche, che forse qualche volta abbiamo capito un po’ di più il valore della fede nei momenti difficili di qualche esperienza negativa.
Mi è sempre rimasta in mente l’immagine di mia nonna, inferma per 17 anni nel letto in cucina di casa nostra. Io avevo solo dieci anni quando morì, ma me la ricordo sempre con il rosario in mano. Era il punto di riferimento di tantissime persone del nostro villaggio, che ogni giorno passavano a trovare conforto parlando con lei.

Queste sono solo alcune considerazioni sulla debolezza prese dalla Bibbia. Ce ne sarebbero tante altre.
Ne esce chiaro un fatto: Dio non ragiona a modo nostro. A lui interessa più la nostra disponibilità che la nostra efficacia; gli interessa molto di più che lo lasciamo agire in noi piuttosto di quello che noi facciamo per lui. Però non vuol fare a meno di noi.
La fede deve essere l’aspetto caratteristico di noi credenti.

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