Il cammino salutare delle sconfitte. 1

Nella tua debolezza mostrerò la mia forza

- 1 parte



La nostra situazione:   Va poi tutto così male?

Le risposte che non vengono
Per molti preti o religiosi, uno degli aspetti più difficili da accettare nel lavoro pastorale è la propria incapacità di rispondere a tutti gli impegni che corollano la giornata o che casualmente ci piombano addosso. E' normale sentir dire: "Ho troppe cose da fare, non riesco a star dietro a tutte, non riesco a farne bene nessuna, sono sempre di corsa." Scoraggiamento, senso di impotenza o incapacità sono cose sempre più comuni tra i religiosi e i sacerdoti specialmente tra i giovani. Eppure si esce da scuole sempre più all'avanguardia ed armati di titoli che anche solo vent'anni fa i nostri predecessori neppure sognavano.
Cosa è cambiato? Il nostro lavoro è davvero diventato impossibile? E' davvero necessario correre 24 ore al giorno per far fronte a tutte le richieste?
L'iperattivismo sul lavoro è una malattia tipica del nostro tempo e della nostra società. Anche nelle famiglie si riscontra lo stesso problema. Chi ci rimette sono la salute, la tranquillità, le persone che incontriamo, e più ancora quelle che vivono con noi, quelle che più amiamo. Non riusciamo più a dar loro l'amore che vorremmo, o almeno a dimostrarglielo, abbiamo quindi l'impressione di tradirli.
Quanti genitori si lamentano perché a causa del lavoro non riescono più a stare con i figli. Arrivano a casa tardi, stanchi, i figli sono già davanti al televisore, o, se sono più grandi sono già usciti con gli amici; Al mattino poi ci si alza presto e si corre di nuovo in ufficio.
Non verrebbe forse la voglia di mollare tutto? Ma come si fa, questo è il mio lavoro, è difficile trovarne un altro, ricominciare da capo, ho bisogno dello stipendio per vivere. E così si continua sconsolati nella routine quotidiana, magari con un nascosto senso di invidia per chi è "meno fortunato" di noi. Nei conventi la storia non è tanto diversa.
Altre volte invece possiamo provare un senso di impotenza dovuta al fatto che le cose da fare sono troppo grandi per noi. Basti pensare al nostro apostolato dove spesso ci troviamo da soli a risolvere problemi enormi. Una persona entra in confessionale e mi parla delle sue difficoltà: che devo rispondere? Sono cose vere di cui noi non ho esperienza perché vivo in una situazione diversa, ma la comprendo dal modo in cui l'altro me le partecipa, dalla sofferenza sul suo volto e nelle sue parole: non posso tradirlo!
Un povero bussa alla mia porta: non ha bisogno solo di soldi o pane; si porta alle spalle una vita fatta di sofferenze, errori, delusioni: cosa posso fare? E' giusto limitarsi ad aprire il portafoglio o il frigorifero? Lo so che spesso mi raccontano storie false, scuse per avere denaro: "Mio figlio è all'ospedale e non posso pagare le medicine". "Ho la possibilità di un'intervista per un posto di lavoro nel luogo tal dei tali ma non ho i soldi per il treno per andare là". "Ho fame e non ho i soldi per un panino". E' facile scaricarli solo perché so che stanno mentendo. Posso anche provarglielo, di certo in fatto di dialettica non possono competere con me che ho fatto l'università. Ma se è vero che loro mentono, è anche vero che un problema c'è e non è cacciandoli che li aiuto a risolverlo. L'incontro con questa persona non può lasciarmi indifferente.
"Avevo fame e mi avete dato da mangiare, sete e mi avete dato da bere". E' solo di cibo che si può avere fame? "Ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito". Sono solo casa e vestito che ci coprono? "Malato o in carcere e siete venuti a visitarmi". L'ospedale è forse l'unico posto di sofferenza vera? e chi è in carcere, lo è ingiustamente? Ero afflitto e mi avete consolato. Cosa ha creato questa afflizione?

Il crollo degli ideali
Allora mi preparo bene per l'Apostolato, faccio un corso di sociologia, frequento incontri specializzati, divento un esperto, ho in tasca la soluzione magica di tutti i problemi, poi ritorno sul campo e ricomincio a lavorare; la gente ricomincia a bussare alla mia porta e mi accorgo che non sono disposti ad accettare ciò che vorrei dare loro. Loro mi chiedono semplicemente mille lire per andare a bere e io vorrei dar loro un'educazione, insegnare come risparmiare soldi, come guadagnarseli. Io vorrei dar loro un lavoro e magari anche una casa e molti di loro preferiscono invece vivere alla giornata elemosinando il necessario per l'oggi. Io vorrei dare loro una speranza per il futuro e loro non sanno neppure se arriveranno a domani. Che fare?
Parto per la missione. "Lì sì che c'è vera povertà, non come quella dei miei barboni di prima, povertà non dovuta ai loro errori ma all'ingiustizia del mondo o degli strumenti di potere. Lì sì che posso lottare con loro e realizzarmi".
Ma quando sono sul posto mi accorgo che non capisco una sola parola di quello che mi dicono. Imparare la loro lingua richiede almeno un anno e per tutto quel tempo se qualcuno bussa alla mia porta che rispondo? I problemi li vedo, saprei come fare, ma come agire se non so comunicare?
La lingua non è il solo ostacolo, ci sono le tradizioni del posto che alle volte sono la prima causa della povertà; se le rispetto non risolvo i problemi, se le ignoro mi perdo la stima della gente: "Un altro Americano venuto qui a vendere Coca Cola e hamburger".
La cosa migliore è educare questa gente, ma ciò richiede tempo. Anche quando sono riuscito a maneggiare perfettamente la loro lingua e a districarmi tra i meandri della loro cultura, è difficile far capire ciò che voglio dire, sarebbe meglio se ad insegnare fosse uno di loro. Allora provo a formare dei catechisti, collaboratori, professori, li mando ai migliori corsi: iniziano in dieci e otto si perdono per strada. Per gli altri due, una volta che hanno raggiunto un titolo, è grossa la tentazione di accettare un altro posto di lavoro che paga di più, d'altronde hanno una famiglia da mantenere, come si fa a biasimarli. Alla prima occasione di un lavoro all'estero partono: un'occasione così capita una volta sola nella vita.
E quando invece lavorano per te fanno di testa loro, non sono degli automi, degli schiavetti al tuo servizio, ma gente con una testa con cui ragionare e un'istruzione che tu hai provveduto loro. D'accordo non hanno la tua esperienza e la tua lungimiranza, ma faglielo capire se sei capace.
Bisogna programmare assieme e andare avanti assieme, ma spesso programmare significa perdere giornate intere attorno a un tavolo quando là fuori ci sono i problemi di sempre. Magari si perdono ore a litigare su due pareri diversi di poco valore. Allora la tentazione di mollare tutto è forte.
Finalmente troviamo un accordo, costruiamo una scuola, un ospedale ecc. tutto sembra andare per il meglio grazie alla mia capacità organizzativa e ai soldi che gli amici europei mi mandano. Arriva però all'improvviso il Superiore che ha deciso di cambiarmi, di mandarmi da un'altra parte dove bisogna ricominciare da capo, o peggio ancora di richiamarmi in patria.
Come si fa ad accettare, come farà quest'opera ad andare avanti senza di me, e come farò io a riabituarmi ai ritmi europei?

È possibile una vita spirituale?
L'Apostolato o il rapporto con gli altri non sono gli unici momenti in cui mi sento impotente. A volte le difficoltà maggiori vengono da me stesso.
Quante volte dico: "vorrei..." ma so già che non si realizzerà mai. Quante volte in confessione dico: "Ogni volta prometto che … ma poi ci ricasco sempre". Quante volte inizio un cammino di conversione per poi ritrovarmi lo stesso di prima. O quante cose ho lasciato a metà solo perché mi sono stancato: "Ma chi me lo fa fare, sono andato avanti così per tanti anni e non è andato poi così male; perché cambiare?" La pigrizia che ognuno si porta dietro, il quieto vivere, agiscono su di noi senza che ce ne accorgiamo, sentiamo però dentro che c'è qualcosa che non va, che fare?
Naturalmente tutta questa presentazione è esagerata; non esiste al mondo persona con tutti questi problemi, però ognuno di noi se ne porta dentro un po' e allora questa riflessione sarà valida nella misura in cui potrò rispecchiarmici.
Che fare per un cammino spirituale di conversione? L’unica via possibile sembra essere quella di accettare la nostra debolezza, la nostra incapacità come dato di fatto e da lì partire con costanza e pazienza. Ha un senso tutto questo?
Cerchiamo nella Bibbia una risposta alla nostra domanda.

Post popolari in questo blog

Gesù è davvero un re?

I santi, nostri amici

Cosa dobbiamo fare?