Il cammino salutare delle sconfitte. 4
Nella tua debolezza mostrerò la mia forza
- 4 parte
Partecipiamo
alla debolezza di Cristo:
i
voti.
Noi religiosi siamo chiamati a fare nostri i sentimenti di Cristo. I
voti di obbedienza, povertà e castità sono il modo migliore per
farlo.
Anch’essi a prima vista possono sembrare segni di debolezza, ma è
la via scelta da Cristo.
Obbedienza
Certamente l'obbedienza è e resta il vero voto nella vita religiosa,
come giustamente insegnano i grandi maestri.
Con essa veniamo a rinunciare volontariamente a
quanto c'è di più personale in noi: la volontà e la libertà, per
consegnarle a Dio. E' attraverso l'obbedienza che entriamo nel piano
di Dio, non solo come suoi imitatori, ma anche come suoi servi, cioè
collaboratori nella realizzazione del suo piano.
Per questa sua elevatezza però, l'obbedienza è
anche il voto che più costa: col tempo si potrà ottenere una certa
pace dei sensi, un distacco dalle cose, mentre ben difficilmente
anche a 100 anni uno rinuncia ai propri pensieri e spazi.
Naturalmente questo non è un discorso da
assolutizzare perché a qualcuno Dio chiede più prove riguardo alla
castità, ad altri riguardo alla povertà, ad altri ancora riguardo
all'obbedienza. Il discorso vale in linea di massima.
Il segreto dell’obbedienza religiosa è racchiuso nel mistero del
Dio fatto uomo. "...umiliò se stesso facendosi obbediente fino
alla morte...Per questo Dio l'ha esaltato".
Interessante la storia di Cristo. Il Padre gli chiede un'obbedienza:
realizzare il suo piano di salvezza. Cristo accetta e lo realizza
attraverso una storia di abbassamento - povertà. Per realizzare
questo suo atteggiamento di umiliazione obbedisce fino alla morte e
per questo Dio lo esalta. L'inno del cap. 2 di Filippesi è tutto un
intrecciarsi di obbedienza e umiliazione. Sembrerebbe quasi che
l'obbedienza sia in funzione dell'umiliazione e che sia questo
atteggiamento di umiliazione che merita il premio del Padre. Si
ripensa subito però al passo di Ebr. 5,3 "Imparò l'obbedienza
dalle cose che patì". L'obbedienza di Cristo al Padre è per
noi un esempio da seguire. Cristo accetta la kenosi dell'Incarnazione
per obbedire al disegno del Padre; accetta la croce, l'abbandono,
l'incomprensione, il dubbio ed esclama: "nelle tue mani affido
il mio spirito".
La storia di Cristo è anche la nostra storia di ogni giorno, in cui
accettare l'obbedienza costa rinunce. Chi dubita che avendo libertà
di azione, di tempo potrebbe essere più efficace in quello che fa,
sentirsi più realizzato? Cristo non ha fatto così. Obbedire agli
uomini è un modo per imparare ad obbedire a Dio.
Entrando nella vita religiosa abbiamo scelto che la gente non veda
più me agire, ma attraverso di me veda la mia comunità, la mia
congregazione, e attraverso di esse veda la Chiesa e Dio. È il
mistero della comunione; è il mistero della Trinità.
In quale modo possiamo noi abituare la nostra volontà all'esercizio
kenotico di accettare quella di un altro? Unico modo è riconoscersi
poveri. Tutto dipende da Dio, noi dipendiamo da lui.
La povertà, ha anch’essa un grande valore pedagogico.
Povertà non va intesa solo nell'aspetto fisico della mancanza delle
cose materiali, ma anche dall'atteggiamento interiore che vi è
legato: insicurezza per il domani, sapere di non poter dare risposte
nostre, dover dipendere.
E' la linea dei "Poveri di YHWH"
dell'AT e dei "Poveri di spirito" di Mt 5 di cui abbiamo
parlato sopra. Il riconoscere che tutto ci viene dato da Dio, che in
Dio solo possiamo porre le nostre ricchezze è l'atteggiamento
opposto a quello del ricco che pensa come investire i suoi capitali
per assicurarsi una vecchiaia nell'abbondanza, senza pensare che
quella notte potrebbe essergli richiesta la vita.
La povertà religiosa è un argomento molto delicato. In linea di
principio tutti sono d’accordo, ma nell’attuazione pratica ci
permettiamo mille piccole scappatelle che ci fanno sentire più
efficaci, sicuri eccetera. Sarà un caso, ma oggi più che mai, nasce
in molti giovani il desiderio di unirsi a quelle congregazioni che in
fatto di povertà sono più radicali e austere.
L'esercizio del distacco dalle cose, porta alla convinzione interna
della nostra debolezza senza Dio. La dipendenza porta al
riconoscimento di quanto c’è nell'altro. Chi vive in spirito di
povertà sa che quello che riceve è puro dono..
Povertà allora, non solo come distacco del
cuore ma anche distacco fisico che renda possibile e più vero quello
spirituale. Amore al "disturbo" di dover chiedere qualcosa
all'altro o dover andare giù a usare quello della comunità senza
avere la comodità di averlo personale in camera. Amore di rinunciare
anche a qualcosa che potrebbe essermi utile ma che non mi è
necessario. E via di seguito.
Povertà che non è solo essere staccato dal
mio registratore tanto da non aver timore a metterlo a disposizione
degli altri: (questo potrebbe un po' alla volta generare un
sentimento di superiorità perché io ce l'ho e tu dipendi da me), ma
povertà che è umiltà di dover chiedere il registratore a te se mi
serve, e doverne fare a meno se non ne trovo uno disponibile.
Dalla povertà nasce uno stile di umiltà che è la base
dell'obbedienza e della castità.
Chi si sente autosufficiente, indipendente, chi
sa di avere in camera sua la risposta ad ogni suo bisogno, farà
molta più fatica ad accettare una direttiva contraria al suo parere;
farà molta più fatica ad ascoltare l’altro e quindi ad amarlo
veramente.
Chi guarda al voto di castità dal di fuori non lo capisce e forse
questo è il punto in cui noi religiosi siamo più criticati.
La prima obiezione che viene mossa ai religiosi è che rinunciano a
qualcosa che è parte integrante della natura umana, qualcosa che non
può essere semplicemente soppresso. Anche chi avesse alle spalle
un’esperienza di matrimonio fallito, raramente arriva a pensare di
poter fare a meno di condividere la propria vita con un’altra
persona. Che dire poi di quelle culture dove la procreazione è un
valore irrinunciabile?
La gente non fa molto caso a come noi religiosi viviamo l’obbedienza,
al massimo si limitano a dire che non sappiamo andare d’accordo; la
povertà è apprezzata e ci criticano se non la viviamo; della
castità, invece, non ne capiscono il perché e la ritengono uno
sbaglio, come se noi volessimo menomare noi stessi
Col voto di castità non neghiamo la validità e la bellezza del
matrimonio, ma il problema è che il voto di castità non è una
rinuncia, ma una scelta, o meglio una risposta a una chiamata
soprannaturale. Non si rinuncia poi ad amare, ma si sceglie di amare
in modo diverso e maggiore. Sarebbe difficile pensare a un religioso
che sappia vivere in modo maturo e totale la sua donazione senza
essere passato almeno una volta in vita attraverso l’esperienza
dell’innamoramento.
È veramente necessario vivere la castità come chiamata all’amore.
Dio è amore, non ci può volere per qualcosa di diverso, e poi lui
vuole tutto il bene per noi non potrebbe chiamarci a vivere da
infelici. Noi, attratti da questa sorgente di Amore che è Dio
stesso, siamo in cammino verso un amore sempre più grande, più
vero, più bello, più libero. Così diventiamo persone innamorate di
Dio e pian piano tutta la vita viene a racchiudersi in un unico
volto: quello dell’Amore.
È solo amando che posso realizzarmi come uomo o
donna e quindi vivere a pieno la mia sessualità che è il dono
attraverso il quale Dio ci ha fatti simili a lui: “e Dio creò
l’uomo a sua immagine; a sua immagine lo creò, maschio e femmina
li creò”.
Chi si consacra non lo fa perché non sa vivere il suo essere uomo o
donna, ma perché di questo vuol fare dono a Dio. Attraverso il
sacrificio fisico che alle volte è richiesto al religioso, quando il
suo corpo sente attrazione, stimoli eccetera, la persona impara a
diventare più padrone di sé per poter essere più pronto a donare
tutto sé. La sofferenza è l’arma della purificazione dell’amore.
Se l’obbedienza era il voto che ci rendeva più religiosi, la
povertà ci rendeva più uomini di fede, la castità è quella che ci
rende più simili a Dio unico, vero, puro amore.
Se la castità è concepita prima di tutto come chiamata all’amore,
attraverso l’amore posso superare tutte le difficoltà, le crisi,
le meschinerie che riempiono la mia giornata, e posso trasformarle di
slancio in strumenti di crescita.
La castità consacrata ha inoltre un triplice valore:
- valore redentivo. Il campo della sessualità è uno dei più colpiti dalla cultura materialistica di oggi. Noi siamo chiamati a riscattarla ridandole il giusto valore. La nostra testimonianza può diventare una provocazione e al tempo stesso partecipare all’opera redentrice di Cristo.
- Valore escatologico. Noi viviamo qui sulla terra in modo imperfetto quello che vivremo in modo pieno nella vita eterna. Là l’amore sarà liberato da tutte le influenze delle passioni. Col nostro voto di castità anticipiamo in qualche modo quella che sarà il nostro modo di vivere l’amore nell’eternità.
- Valore incarnazionistico. Gesù assumendo la nostra natura umana ha scelto questo modo di vivere la sua missione. Noi nel continuare la sua missione vogliamo anche continuarne il modo di vita.
Mi viene spontanea una domanda: Non abbiamo mai pensato che forse
certi nostri atteggiamenti burberi nei confronti degli altri, certi
modi freddi e indifferenti dettati dalla paura e usati come presunta
difesa della castità, e certe mancanze di carità sono un peccato
contro il voto di castità?
Ogni volta che pecchiamo contro l’amore pecchiamo contro la castità
perché la castità non consiste semplicemente nel vivere da “non
sposati” (questo è il celibato), ma da innamorati di Dio e del
prossimo. Una persona matura sa vivere con gioia la propria
consacrazione a Dio, sa vivere con libertà l’incontro con gli
altri, e pur mantenendo il dovuto rispetto, sa donare con cuore largo
tanto amore quanto ne hanno di bisogno gli altri perché è radicata
nella sorgente dell’amore e nutrita e rinvigorita dalla preghiera e
dalla contemplazione.
Allora?
Questa è stata solo una semplice riflessione. I punti toccati sono
solo degli scorci poco profondi e incompleti di un argomento che
meriterebbe ben altra attenzione, ma spero che possano servire a chi
si trova in momenti difficili, a capire che quello è un tempo
privilegiato della sua vita, in cui ha un’occasione unica di
incontrare Dio.
Un giorno un padre si divertiva a guardare suo figlio intento nel
duro lavoro di spostare un grosso vaso. Esaltato dalla presenza del
padre, il ragazzo provava in tutti i modi di spostare questo vaso,
prima tirandolo, poi spingendolo, poi facendo leva col suo corpo
contro il muro, ma ahimè il vaso era troppo pesante per lui.
Scoraggiato il ragazzo si recò triste dal padre dicendo: “Scusami
papà, non ce l’ho fatta. Ho tentato in tutti i modi, ma era troppo
pesante per me”. Il padre rispose sorridente: “Sei sicuro di aver
provato proprio tutto? C’era ancora una cosa che potevi fare:
potevi chiedere aiuto a me”.
Auguri!