Ce la faremo a salvarci?

 Ce la faremo a salvarci? ( Luca 13,22-30)

Quante volte ci siamo chiesti: “Ma io mi salverò?”
È una domanda che nasce dal desiderio più profondo del cuore umano: vivere per sempre con Dio. Già ai tempi di Gesù questa era una preoccupazione comune. Alcuni pensavano che bastasse appartenere al popolo eletto; altri che fosse sufficiente osservare la legge. Oggi, molti cristiani ragionano ancora così: “Sono cristiano, quindi mi salvo; chi appartiene ad altre religioni, no”. Oppure: “Io vado a Messa, altri no, e questo farà la differenza”.

Ma Gesù ci sorprende: non guarda alle etichette, ma al cuore.

Gesù afferma che la porta per entrare nel Regno è stretta. Non è una porta materiale, ma uno stile di vita. È stretta perché richiede impegno, sacrificio, amore concreto. Non si entra “in carrozza”, come dicevano i nostri nonni, ma camminando con fatica, portando i pesi degli altri, soccorrendo chi è nel bisogno. Per attraversarla bisogna farsi piccoli, umili, semplici come i bambini (Lc 18,17).

Nel Vangelo di Matteo, Gesù ci offre un criterio chiaro:
“Venite, benedetti dal Padre mio, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere…” (Mt 25,35).
Ecco la porta stretta: la carità. Non una carità di parole, ma di gesti concreti, tempo donato, attenzione sincera.

Gesù invita a “sforzarsi di entrare”. Non si tratta di guadagnarsi la salvezza, ma di scegliere ogni giorno di vivere come Lui. Amare davvero non è facile: bisogna lottare contro l’indifferenza, contro la rassegnazione che dice: “Tanto non cambia nulla”. È decidere di amare anche quando costa e nessuno ringrazia.

Per Gesù, la salvezza non riguarda solo il futuro: Egli vuole salvarci oggi, proponendoci il suo stile di vita, quello delle Beatitudini. Solo così si vive la vita vera, da figli di Dio. La vita che il mondo ci propone, invece, spesso ci svuota e ci disumanizza.

Nel Vangelo, Gesù mette in guardia da una grande illusione: “Abbiamo mangiato alla tua mensa e hai insegnato nelle nostre piazze”. È un chiaro riferimento all’Eucaristia e alla catechesi, cioè al cuore della vita cristiana. Potremmo tradurlo così: “Signore, noi siamo praticanti, andiamo a Messa, seguiamo la catechesi…”.
Eppure Gesù risponde: “Via, operatori di iniquità, non vi conosco”.

Luca scrive queste parole per comunità cristiane dove già si era insinuato il lassismo: persone che partecipavano alle celebrazioni, ascoltavano la Parola, ma la loro vita non era cambiata. Continuavano a vivere come prima: concentrati sui propri affari, sull’arricchirsi, sul mantenere potere e prestigio. Gesù ci avverte: non basta dire “Signore” o sedersi in chiesa la domenica. Senza amore, senza carità, senza una vera relazione con Lui, rischiamo di restare fuori. “Non vi conosco” significa: “Non avete vissuto come me, non avete amato come io ho amato”.

Gesù conclude dicendo che molti verranno da ogni parte del mondo e siederanno alla mensa del Regno. Non conta l’origine, la religione, la lingua o la cultura: ciò che conta è aver aperto il cuore e riconosciuto Cristo nei poveri, nei malati, nei piccoli. Nel mondo esistono cristiani che vivono la loro fede in forme diverse, ma l’essenza resta: la religione deve metterci in comunione con il Dio che ci ama e vuole salvarci, per vivere uniti a Lui per sempre.

Alla fine, la risposta è semplice e impegnativa insieme: si salva chi ha vissuto la carità; chi ha fatto spazio a Dio nel cuore e agli altri nella vita; chi ha scelto la porta stretta dell’umiltà, del servizio e del dono.
E questo è il motivo per cui ci chiamiamo Cristiani: perché seguiamo Cristo, che ha dato la vita per amore.

Post popolari in questo blog

Gesù è davvero un re?

I santi, nostri amici

Il bisogno di rinascere