I segni del suo Amore
Le ferite di Cristo: segni di gloria e di amore (Lc 24:35-48)
Fratelli e sorelle, la scena del Vangelo di questa
domenica ci riporta alla scena già vista e commentate domenica scorsa: Gesù
risorto appare ai discepoli chiusi nel Cenacolo e mostra loro le sue ferite.
Questo è un evento che, a prima vista, può sembrare
sconcertante. Da un lato, il corpo di Gesù è glorificato, risplendente di una
luce immortale. Dall'altro, le ferite della sua passione rimangono impresse,
come segni indelebili del suo sacrificio.
Come prima reazione noi penseremmo che la Resurrezione di
Cristo sia la conclusione di ogni problema, e quindi la sua morte sia qualcosa
da dimenticare, un momento di passaggio, doloroso, ma ora finito.
Infatti da un punto di vista teologico, la presenza delle
ferite nel corpo glorificato di Cristo pone un problema: come possono
coesistere la gloria e la sofferenza?
La risposta ci viene dalla spiritualità: le ferite di
Gesù non sono solo un segno del suo dolore passato, ma sono anche un simbolo
del suo amore infinito per noi. Il tradimento di Giuda, l’arresto nel
Getsemani, la fuga dei suoi discepoli, le ferite fisiche, l’umiliazione e la
morte, sono più che un simbolo, sono la prova concreta di quanto esso ci ami,
perché è per noi che ha accettato tutto questo.
Gesù non mostra le sue ferite per rimproverarci o per
farci rivivere il dolore della sua passione. Le mostra per rivelarci la
profondità del suo amore. Quelle ferite sono il prezzo che ha pagato per la
nostra salvezza. Sono la prova tangibile del suo sacrificio per noi. Il profeta
Isaia lo aveva già predetto: "Dalle sue piaghe siamo stati guariti"
(Is 53,5).
Alla luce di questo amore, possiamo guardare alle nostre
ferite con occhi nuovi. Le nostre debolezze, i nostri sbagli, le nostre
sofferenze possono diventare strumenti di salvezza, non solo per noi stessi, ma
anche per gli altri. Senza dubbio ognuno di voi ha in mente momenti di
sofferenza passati che poi si sono trasformati in grazia. Ma ognuno porta in sé
anche ferite ancora aperte a cui preferiremmo non pensare ma che continuano a
fare male. Chiediamo a Dio di intervenire, ma a modo suo, non secondo i nostri
desideri umani, ma secondo il suo piano divino.
San Paolo, in un momento di estrema debolezza e
sofferenza invoca Dio di liberarlo. La risposta che ottiene è: “Ti basta la mia
grazia, perché è nella tua debolezza che posso mostrare la mia forza” (2 Cor
12,9). Da questo lui ha imparato a trovare forza nella sua debolezza. Anche noi
possiamo permettere a Dio di trasformare il nostro dolore in compassione,
umiltà, forza interiore e rinnovata capacità di amare.
Le ferite di Cristo sono un invito a non avere paura
delle nostre debolezze. Sono un incoraggiamento ad abbracciare la nostra
fragilità come parte della nostra umanità e a permettere a Dio di usarla per
compiere opere di bene. È nella nostra debolezza, infatti, che la sua forza si
manifesta in modo più potente.
Allora chiediamoci:
- Quali sono le ferite che ancora sanguinano nel nostro cuore?
- Come possiamo guardare ad esse con occhi nuovi, alla luce dell'amore di Cristo?
- In che modo le nostre debolezze possono diventare strumenti di salvezza per noi e per gli altri?
- Come possiamo permettere a Dio di trasformare il nostro dolore in forza e in compassione?
Padre Santo, ti chiediamo di aiutarci a guardare alle nostre ferite con gli occhi di Cristo. Fa che possiamo riconoscere in esse il segno del tuo amore infinito per noi e che possiamo permetterti di usarle per compiere opere di bene. Amen.