Cos'è un miracolo?
Prima dei miracoli la promozione umana e alla base di essa la relazione
Abbiamo appena letto la descrizione di un miracolo che, a prima vista, sembra essere semplice, infatti è presentato con poche parole, senza dettagli, invece sottolinea una grande sfida alla società di quell’epoca. Esso ci parla di due aspetti importanti in ogni relazione esistente tra due persone. La legge di Mosè proibiva ai lebbrosi di avvicinarsi a qualsiasi altra persona; non dovevano intrattenere alcun tipo di rapporto. Le persone sane, da parte loro, dovevano stare alla larga da essi perché altrimenti si rendevano impuri e quindi non avrebbero più potuto partecipare ad alcun atto pubblico, né pregare e neppure prendere cibo.
Ebbene, qui abbiamo un lebbroso che infrange la legge e si avvicina a Gesù, e, come risposta, abbiamo Gesù che, non solo non lo condanna, ma addirittura allunga la mano e lo tocca. Gesù non ha paura di andare contro la legge e di rendersi scomunicato, pur di dare una risposta alla richiesta di una persona rigettata dalla società.
Forse noi non abbiamo leggi che discriminino le persone, ma abbiamo tante tradizioni e preconcetti che escludono persone dalla nostra società, o perché sono più povere, o perchè sono di un-altra nazionalità o di un-altra religione. Essi sono gli emarginati della società moderna. Per essi Gesù allungherebbe la sua mano. E noi? Abbiamo noi il coraggio di rimuovere le barriere?
Un secondo aspetto interessante di questa relazione tra il lebbroso e Gesù è l’umiltà della domanda che provoca l’entusiasmo della risposta. L’ammalato non chiede una guarigione, non ordina un prodotto, non esige o richiede assistenza, ma con umiltà sottolinea che la decisione su cosa fare spetta a Gesù e lui è disponibile ad accettare ogni tipo di risposta. Lui dice: “Se vuoi”. Con queste parole, il malato mette l’altro in alto e se stesso alla mercé della sua decisione. La risposta che ottiene è l’entusiasmo di Gesù: “Lo voglio”. Gesù non è colpito né dalla forza della richiesta né dal bisogno della persona, ma dal suo atteggiamento, perché quello che è in gioco qui non è la guarigione, ma un rapporto di fiducia e amicizia. L’umiltà provoca l’entusiasmo e il coinvolgimento. Questa relazione genera la guarigione, anzi è la parte più importante della guarigione stessa. Il lebbroso non aveva bisogno solo che la sua pelle ritrovasse la freschezza, ma che la sua condizione di rifiutato dalla società ed esule terminasse. Prima era un nemico rigettato, ora è un amico amato.
Alle volte noi abbiamo bisogno di aiuto. A chi ci rivolgiamo? Quale è il nostro atteggiamento nel domandare? Prevale la voglia della soluzione o l’umiltà di lasciare all’altro la decisione? Ci fidiamo veramente dell’altro, non solo come professionista, ma anche come persona?
Anche la nostra preghiera rientra in questo schema. Quando preghiamo, ci limitiamo a chiedere delle grazie? Come le chiediamo? Cosa ci aspettiamo di ottenere?
Spesso chiediamo perché veramente abbiamo bisogno di qualcosa ma dentro di noi c’è come una sensazione negativa, o il dubbio che la riceveremo, come se sapessimo che Dio non ci ama; chiediamo a Lui perché non ci sono altri, ma se potessimo faremmo a meno. Che relazione abbiamo in realtà con Dio?
Tante persone si rivolgono a noi per chiedere aiuto, come le trattiamo? Che tipo di risposta diamo? Solo quella formale che concede ciò che è chiesto o creiamo un’apertura a una relazione più profonda, alla possibilità a un coinvolgimento in altre parti della vita, magari più delicate e più dolorose? Che cambiamenti ci aspettiamo di provocare nella vita dell’altro? Una soluzione temporanea che farà sì che presto abbia ancora bisogno di noi (quindi lo mantenga inferiore a noi), o una che lo elevi al nostro livello, lo renda indipendente e nella posizione di iniziare una relazione alla pari?