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 L’Incarnazione, unica arma contro l’emarginazione. Mc 1,40-45

Domenica scorsa in tutto il mondo si è celebrata la giornata mondiale per la lotta al bullismo. È un fenomeno purtroppo molto diffuso tra i giovani e i ragazzini, ma spesso anche tra gli adulti. Ci sono persone che vengono derise, messe da parte solo perché sono diverse e non soddisfano gli standard della nostra società. Il diverso rovina l’armonia della nostra famiglia, del nostro gruppo, della nostra immagine o società. C’è paura del diverso, dello straniero ma soprattutto paura di perdere la nostra comodità, il nostro “regno”. Chi è costretto a farsi da parte o a fuggire si sente cadere a pezzi, inutile, senza futuro. Queste persone si portano dietro ferite profonde, complessi d’inferiorità, sensi di colpa. Molti preferirebbero sparire, si mettono in un angolo e rifiutano ogni interazione, alcuni arrivano al suicidio. Sparisce in loro il senso di fiducia nell’altro, nel bene, in Dio.

Forse pensiamo che questa situazione sia un’esclusiva dei nostri tempi, invece no, c’è sempre stata. Anche ai tempi di Gesù c’erano degli esclusi e tra questi, i più famosi erano i lebbrosi. Essi erano costretti a vivere fuori dalla società, evitare ogni contatto con gli altri perché erano impuri, infettivi, rigettati da Dio. Per la religione ebraica ogni contatto con un morto rendeva impuri e chi era impuro non poteva entrare nella sinagoga a pregare o in casa per pranzare con gli altri; doveva prima purificarsi; ebbene, il lebbroso era considerato impuro perché parte del suo corpo era morta, non aveva sensibilità, si decomponeva, quindi lui era in costante contatto con la morte e non vi era speranza di purificazione. Con poca conoscenza della medicina, la gente riteneva che questa situazione fosse dovuta a una maledizione di Dio, allora l’unico a poter cambiare la sua situazione era Dio stesso togliendogli la sua maledizione con un miracolo.

Il lebbroso del vangelo di oggi si sente proprio come le persone presentate sopra. Ha paura ad avvicinarsi, teme di disturbare, sa di non essere degno dell’attenzione di Gesù, per cui si presenta dicendo: “Se lo vuoi, puoi purificarmi”.  Questo suo atteggiamento rispettoso e implorante indica che il lebbroso non gli chiede  direttamente la guarigione, ma, in un modo indiretto, sembra dirgli: “Almeno tu considerami umano, non emarginarmi”. Ecco la purificazione: un atto di fede nella capacità di Lui e di sottomissione alla sua volontà, qualsiasi essa sia. Per questo non dice “guarirmi”, parola che indicherebbe la semplice malattia fisica, ma “purificarmi”, che indica la situazione totale in cui intervengono tutti i fattori fisici ma anche morali, spirituali, emotivi.

Cosa passa nella mente di Gesù quando si trova di fronte a questa richiesta? Lo dice il vangelo: “Mosso a compassione”. È una traduzione “soft”; l’originale greco dice “sentitosi rimescolare le viscere dentro”. Dio non può accettare che una persona, un suo figlio, venga escluso dall’amore solo per la codardia di chi si sente grande o forte. Lui è venuto proprio per sconfiggere ogni situazione di emarginazione e disuguaglianza. Allora la frase più importante di tutto il brano è: “Certo che lo voglio”.  È una dichiarazione di amore da parte di Gesù. Quando ci si sente inferiori, infelici, servono a poco le teorie e i bei discorsi; quello che veramente fa la differenza e genera la soluzione è l’amore. Quando vediamo negli occhi di chi ci sta davanti la fiamma dell’amore, riprendiamo vita, riaccendiamo la speranza, recuperiamo il valore di noi stessi.

Le parole di Gesù sono accompagnate dal suo gesto d’amore: “tese le mani, lo toccò …”. Sarà stata forse una carezza o forse gli ha solo preso la mano. Non era un gesto necessario, ma Lui lo fa. Sappiamo dal vangelo di diversi miracoli fatti da Gesù a distanza come ad esempio la guarigione dei 10 lebbrosi avvenuta mentre camminavano per andare a mostrarsi dal sacerdote. Facendo questo gesto, però Gesù si rende impuro. Dio non considera impuro nessuno dei suoi figli, non solo i lebbrosi ma neppure chi commette peccati, chi è bloccato da rancore, odio, sentimenti di vendetta, ecc. Il gesto di Gesù ha permesso di abbattere ogni paura e ogni pregiudizio che l’altro potesse avere. “Se mi tocca vuol dire che per lui esisto, sono accolto, sono degno di essere toccato”.

Noi abbiamo il vizio di creare delle etichette, le abbiamo appiccicate sulla fronte delle persone: “gradito, non gradito; da amare, da odiare; bravo, peccatore; eroe, vigliacco”. Con queste etichette ci sentiamo sicuri, a posto, le abbiamo studiate bene, siamo sicuri che siano giuste. Questa è una società che non conosce più Gesù, anche se va a messa. È una società che non sa amare, anche se prega. È una società che non conosce più la verità delle cose, anche se usa l’intelligenza. Sa andare sulla luna, sa penetrare nei geni delle cellule, sa calcolare la velocità degli elettroni o la grandezza degli atomi ma non sa più entrare nel cuore di chi gli sta attorno.

Il racconto di oggi ci ha presentato un lebbroso coraggioso, però è raro che chi si sente rigettato abbia il coraggio di cercare aiuto. Di solito chi si sente emarginato si nasconde, magari crea gruppi di altri come lui. Era proprio quello che facevano i lebbrosi che creavano piccoli gruppi in luoghi nascosti, appartati per sostenersi a vicenda. Tocca a noi riconoscerli e andare incontro a loro, far sentire loro che li amiamo e siamo disposti ad accettarli. All’inizio li vedremo diffidenti, impauriti, e solo l’amore li può conquistare. Noi conosciamo tante teorie, tante belle idee per cercare di convincerli, ma i ragionamenti suonano di rimprovero, fanno loro ricordare i loro sbagli o i loro punti deboli. L’amore crea fondamenta solide su cui stare saldi e da lì si può poi passare al ragionamento per ricostruire la persona nuova. L’amore apre la porta, poi la ragione potrà togliere il lucchetto o la serratura perché la porta rimanga sempre aperta.

Andare incontro al rigettato, non è una cosa facile, è pericoloso perché non ci lascia indifferenti, ci fa sentire coinvolti nella sua situazione, ci fa cambiare il modo di rapportarci anche agli altri, ai così detti “normali”, e questi non sempre sono disposti ad accettare il nostro comportamento. Rischiamo di diventare noi stessi degli “emarginati”. Chi toccava il lebbroso era considerato lui stesso impuro e quindi da rifiutare. Lo dice chiaramente l’ultima frase del vangelo di oggi: quando il fatto viene risaputo “Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città ma rimaneva fuori in luoghi deserti”. Gesù sapeva di correre questo rischio ma lo accetta volentieri perché si è messo in gioco con noi fin dall’inizio. Questa è l’Incarnazione, un Dio che, per salvarci, fa sua la nostra carne corruttibile e fragile. Capite ora perché quel “Certo che lo voglio” è una dichiarazione d’amore? Gesù non ha paura di avvicinarsi a noi, di toccare le ferite causate dai nostri peccati, di essere coinvolto nella nostra storia, e di patirne le conseguenze.

C’è un ultimo fatto. Quello che sembrerebbe essere una sciagura, cioè il fatto che ora Gesù non può più entrare liberamente nei villaggi, e che la gente non voglia accoglierlo, diventa invece una benedizione perché il vangelo si conclude dicendo: “e venivano a Lui da ogni parte”. Ora Gesù può incontrare tante persone, quelle che veramente hanno più bisogno di lui, che prima non potevano incontrarlo, dato che da “rifiutati della società” non potevano andare in città dove di solito Lui parlava.

Ricapitolando possiamo ricavare alcuni punti fermi per la crescita della nostra spiritualità:

1.       Dio ci ama e ci vuole vivi.

2.      È Lui che ci viene incontro per guarirci anche se noi abbiamo paura di andare da Lui.

3.       È disposto a pagare pur di incontrarci, di “rovinare la sua immagine” di fronte ai benpensanti, perché il suo è amore vero.

4.      Questa esclusione dalla “zona bene” fa sì che possa entrare in contatto con tanti altri che hanno bisogno di lui perché sono esclusi.

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