Gesù ci guarisce: da cosa?
Gesù il guaritore. Mc 1,29-39
Il vangelo di oggi ci presenta la seconda parte della “giornata tipica” di Gesù; domenica scorsa avevamo visto l’importanza della preghiera e della predicazione, oggi quella delle guarigioni.
All’uscita dalla sinagoga Gesù si reca subito alla casa di Pietro. La sinagoga e la casa sono tenute insieme dal ministero di Gesù: la sinagoga, il luogo della vita spirituale e la casa, il luogo della vita ordinaria. Ciò che è avvenuto nella sinagoga, nel contesto della preghiera e dell’ascolto della Parola, immediatamente produce frutti per la quotidianità della vita.
Il passaggio dalla sinagoga alla casa, non è solo indice del rapporto tra vita spirituale e vita pratica, ma rappresenta anche il passaggio dall’Antico Testamento, cioè dalla religione basata su riti e norme, al Nuovo Testamento, cioè a una religione dove Dio lo dobbiamo incontrare in ogni momento, luogo o attività. Ma Dio come si presenta a noi nella quotidianità? Nella narrazione troviamo una avverbio che va sottolineato: “subito”. Appena fuori dalla sinagoga Gesù va “subito” a casa di Pietro. Questo avverbio ricorre ben 8 volte in un solo capitolo, come a sottolineare una cosa importante, necessaria, di cui Gesù non può fare a meno. Egli sente dentro di sé l’urgenza di venire a noi, di darci il suo messaggio di amore e di salvezza. Ha capito di dover immergersi in un mondo che è troppo esposto all’influsso del diavolo. Il capitolo era iniziato con le tentazioni nel deserto, il primo miracolo era stato quello di liberare un indemoniato. Nel mondo ci sono ancora troppe strutture di male che ci bloccano, ci impediscono di amare e Lui non vede l’ora di mettersi all’opera per liberarci. Ne abbiamo subito la prova nella visita alla casa di Pietro.
Qui troviamo una scena semplice ma piena di significati. La suocera di Pietro è a letto con la febbre e gli parlano di lei. Gesù la prende per mano, la rialza ed essa si mette subito a servirli.
“Giace a letto”; è il verbo usato normalmente per descrivere chi giace morto. La febbre la blocca lì a letto, come morta perché non riesce più a fare quello che è naturale per gli uomini, prendersi cura degli altri. È lì inferma, incapace di prendersi cura della casa che forse sarà in disordine, la polvere si accumula, non può preparare qualcosa da offrire all’ospite, non può essere se stessa; magari avrà anche maledetto Pietro che gli ha portato in casa un ospite e gli fa fare brutta figura a causa della sua incapacità. Ecco cosa è il male: ciò che ci toglie la voglia e la capacità di fare quello che sarebbe naturale per noi, comunicare con gli altri, prenderci cura di loro, e ci blocca sul letto della nostra pigrizia, del soddisfare i nostri piaceri, del vivere chiusi in noi stessi. Forse anche noi vorremmo che Gesù entrasse in casa nostra solo dopo le pulizie di Pasqua, e invece lui, un po’ sarcasticamente, entra nella nostra casa quando meno ce l’aspettiamo!
Il secondo particolare è che “gli parlarono di lei”. È la prima cosa da fare quando c’è un bisogno: andare a parlarne a Gesù. È quello che da sempre la Chiesa fa quando si prende cura dei bisognosi in anima e corpo. Non riusciamo a guarire veramente gli altri se prima non ci confrontiamo con il Signore. Di fronte a una sofferenza, cosa direbbe Gesù? Cosa farebbe? Andiamo a chiederglielo. Poi Lui agirà attraverso di noi.
Gesù come reagisce? Si avvicina, non scappa dal problema. Mentre noi ci raggomitoliamo nella nostra vergogna, Gesù si avvicina, non rimane a distanza, non si scandalizza e non prova disagio a entrare nella nostra malattia. «Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano». Gesù si avvicina alla nostra storia e ci rimette in piedi, ci fa risorgere dalle nostre situazioni di morte, prende la nostra mano, quella con la quale abbiamo raccolto, come Eva, il frutto del peccato, quella che ci vergogniamo di mostrare. Gesù afferra proprio quella mano per strapparci alla nostra malattia. La mano è lo strumento con cui agiamo, con cui interagiamo col mondo, diamo il nostro contributo. La mano di colui che ci ha creati si allunga e prende la nostra mano con la quale commettiamo quei peccati che ci allontanano da Lui. Ci ridà la vita originaria, quella della grazia.
“La febbre la lasciò ed essa li serviva”. Non sapeva più fare il suo compito cioè essere amore per l’altro. La guarigione non è frutto dei suoi sforzi, delle sue capacità o delle sue promesse, ma del lasciarsi toccare dalla potenza di Dio.
“Li serviva” è un verbo continuativo; non li serve solo in quell’occasione, ma continua a farlo. Altro che moralismi e sentimentalismi, scelte e decisioni, tutto si gioca nello spazio di un incontro d'amore all'origine della missione della Chiesa e della vita di ogni cristiano vi è l'esperienza della suocera di Pietro, ovvero l'essere stati guariti gratuitamente, senza neanche aver chiesto nulla. Solo dopo, come un frutto maturo, ci si potrà mettere a servizio di Cristo e della Chiesa.
Non è solo la suocera ad essere trasformata. La casa di Pietro scopre infatti improvvisamente risorse impensate: tutti i malati della città si ritrovano davanti alla porta di quella casa. È un’immagine iperbolica forse per dire che quella casa, che all’inizio era malfunzionante, adesso, dopo che Gesù è passato, diventa una casa accogliente per tutti coloro che vivono la stessa esperienza di malattia. In effetti, quando la grazia di Dio ci incontra, anche noi scopriamo risorse che non pensavamo di avere e che possiamo mettere a servizio degli altri. Il miracolo che ci presenta il Vangelo è molto più di una semplice guarigione, consiste in un cambio di natura: è Gesù che si accosta a ciascuno di noi, perché non viviamo più per noi stessi: Papa Benedetto dice che “le guarigioni sono segni: guidano verso il messaggio di Cristo, ci guidano verso Dio e ci fanno capire che la vera e più profonda malattia dell’uomo è l’assenza di Dio, della fonte di verità e di amore. E solo la riconciliazione con Dio può donarci la vera guarigione, la vera vita, perché una vita senza amore e senza verità non sarebbe vita”.
Il racconto poteva chiudersi lì, invece continua. “Al mattino si alzò quando era ancora buio si ritirò in un luogo deserto e là pregava”.
Gesù si ritira in un luogo deserto, in incognito, senza farsi notare, per stare nella relazione più importante, cioè quella con il Padre. Il bene chiede discrezione, non il clamore della visibilità. Proprio quando Gesù intravvede la gloria umana, se ne va altrove, cerca un altro luogo. In questo modo delude le aspettative di Simone e probabilmente anche di ciascuno di noi, che forse seguendo Gesù cercavamo semplicemente un po’ di sicurezza.
Riassumendo la vita di Gesù presentataci da questa giornata tipica potremmo dire:
- Gesù prega; dove? Nella Sinagoga che è un luogo pubblico, sacro, chiuso e poi in un luogo aperto in giorno feriale. Quindi tutti i luoghi e tutti i giorni sono riempiti dalla preghiera di Gesù. Gesù programma la sua giornata insieme con il Padre.
- Poi Gesù annuncia; Dove? Anche qui tutti i luoghi sono raggiunti dalla sua parola.
- Infine cura; dove? Anche qui tutti i luoghi, cura con la parola.
Tutto lo spazio e il tempo è raggiunto dalla preghiera, dall’annuncio e dall’opera di salvezza di Gesù. Le tre cose vanno assieme perché fanno parte di un unico piano.
Domenica scorsa avevamo la predicazione di Gesù, cioè la verità che si trasforma in autorità, in parola efficace. Oggi abbiamo l’apostolato cioè la carità che crea libertà trasformatrice.
La suocera è liberata da ciò che la teneva bloccata e si trasforma in serva; la sua casa è trasformata da luogo pieno di polvere, in un luogo pieno di grazia per tutti.
La predicazione e l’apostolato vanno tenuti sempre uniti e sono efficaci solo se si fondano sulla preghiera.
Noi siamo abituati a prendere un’attività alla volta e a considerarle tutte staccate tra di loro; ma tutto deve rientrare nel piano di Dio che è unico: la nostra salvezza, la nostra possibilità di vivere con Lui e godere della sua benedizione. Non c’è luogo né situazione che Dio non voglia riscattare dalla sua caducità; tanto più questo vale per le persone.
Bisogna saper pregare mentre si predica e mentre si lavora, ma ogni tanto bisogna anche sapersi staccare dalle nostre attività e ritirarci in un luogo appartato e verificare davanti a Dio quello che diciamo e facciamo, altrimenti le attività diventano troppo importanti, fanno entrare un senso di protagonismo e c’è il rischio che gli aspetti umani prendano il sopravvento, che ricerchiamo solo soluzioni umane, che crediamo di risolvere tutto con le nostre capacità.