Chiamati a vivere come Cristo
Chiamati a vivere come Cristo.
Dalla lettera di San Paolo Apostolo ai
Colossesi (3,12-17)
12Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di
tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, 13sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni
gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come
il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. 14Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della
carità, che le unisce in modo perfetto. 15E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati
chiamati in un solo corpo. E rendete grazie!
16La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi
e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando
a Dio nei vostri cuori.
17E qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto avvenga nel nome del
Signore Gesù, rendendo grazie per mezzo di lui a Dio Padre.
Presentazione
Colossesi. Lettera di Paolo
dalla prigionia, forse da Roma.
Nasce in seguito a notizie
portategli dal discepolo Epafra su problemi sorti nella comunità di Colosse.
Questa era una comunità fondata probabilmente dallo stesso Epafra, discepolo di
Paolo, mentre Paolo si trovava ad Efeso. Come a Colosse, erano sorte comunità
simili anche a Laodicea, Gerapoli e altre ancora. L’entusiasmo iniziale aveva
portato molti a convertirsi, tra questi c’erano anche alcuni membri di origine
giudaica, che forti della loro origine cercavano di influenzare il messaggio
cristiano con teorie loro che però erano contrarie all’insegnamento di Paolo.
Paolo coglie il pericolo che questi problemi potrebbero far sorgere e scrive
subito questa lettera, poi capisce che il problema potrebbe interessare tutte
le comunità della zona e merita una riflessione più pacata, allora scrive
quella che oggi chiamiamo lettera agli Efesini.
Argomento? Mischiando la cultura ebraica
con la filosofia ellenistica, questi Giudei facevano attribuire un’importanza
eccessiva alle potenze celesti preposte al cosmo, minando la supremazia di
Cristo. Non si tratta di negare o meno l’esistenza di tali potenze celesti che
lui paragona agli angeli, ma di metterle al loro posto, cioè sono solo degli intermediari.
Il culto va reso solo a Cristo non a queste altre potenze, perché Cristo è
l’unico salvatore, non solo del genere umano ma di tutto il cosmo, dottrina che
sfocerà poi nella famosa espressione a noi tanto cara del “disegno di Dio di
ristabilire tutte le cose in Cristo”, e l’esortazione che sta alla fine del capitolo
2 di questa lettera in cui, in poche parole dice che nessuna dottrina o nessuna
pratica o regola deve distoglierci dal concentrare il nostro sguardo su Cristo
e ricercare le cose di lassù.
Il paragrafo che abbiamo scelto per la
nostra riflessione fa parte della seconda parte della lettera, quella
parenetica che ha il compito di indicare azioni pratiche che servano a dare
vita alla dottrina dogmatica espressa nella prima parte. Come devono vivere dunque i Cristiani per rendere vera ed efficace la
loro ricerca di Cristo? Bisognerebbe leggere tutto il capitolo 3 e 4 perché
sono ricchi di suggerimenti pratici molto concreti.
Interessante vedere che le raccomandazioni
presenti nel brano di oggi si possono raccogliere attorno a 3 nuclei:
-
Il
rapporto con gli altri con i quali siamo chiamati a vivere in comunione come in
un solo corpo creato per la pace.
-
Condivisione
della parola di Dio e della celebrazione liturgica.
-
Carità
concreta che diventa il modo migliore per rendere lode a Dio.
Dunque abbiamo la comunità, la preghiera, l’apostolato.
Veniamo a leggere nei particolari questo
paragrafo.
Una prima affermazione fondamentale è la
frase: Scelti da Dio, santi e amati,
rivestitevi dunque di… Tutte le affermazioni successive, cioè tutto il
nostro sforzo di vivere in comunità, in preghiera, nell’apostolato hanno senso
e avranno successo solo se si parte
dalla coscienza che Dio ci ha scelti
e ci ha scelti con un atto supremo di
amore. Ogni protagonismo esagerato e ogni sforzo basato solo su argomenti
umani è destinato a fallire. Conseguenze:
-
Se
Dio ci ha scelti, dobbiamo ricercare ogni giorno il senso e il contenuto della
nostra vocazione per essere fedeli a
questa chiamata. Non si tratta di vedere cosa possiamo fare noi per Dio, ma
cosa Dio vuole che noi facciamo. Questa vocazione ha un duplice aspetto,
personale (la vocazione specifica che ognuno ha) e universale (la vocazione che
tutti condividiamo).
-
“Santi”:
è la prima caratteristica della vocazione universale. Siamo chiamati ad essere
santi, cioè a conformarci alla santità di Cristo, a vivere come Lui e con Lui. Se il tema della lettera era la
supremazia di Cristo, allora il nostro modo di vivere, ragionare, scegliere e
agire deve essere dettato dalla costante preoccupazione: Cosa farebbe Gesù al
mio posto? Cosa vuole Dio che io faccia? Cosa mi rende più vicino a lui, più
conforme al suo Vangelo?
-
“amati”:
questa è la seconda caratteristica della vocazione universale e dà alla prima
la possibilità di essere. Perché sforzarci a vivere da santi? Come riuscire a
realizzarla data la nostra debolezza che ci fa scegliere in continuazione il
facile e comodo? La risposta è: perché Dio ci ama e nel suo amore troviamo la forza di realizzare tutto ciò che il
Vangelo ci indica.
“rivestitevi dunque …”.
Seguono una serie di sentimenti che se messi in pratica ci permetteranno di
vivere da Cristiani. Voglio qui richiamare il passaggio del cap. 2 della
lettera ai Filippesi dove S. Paolo ci dice: “Abbiate in voi gli stessi
sentimenti di Cristo …” e poi inizia la splendida presentazione della Kenosis,
il processo di abbassamento di Cristo che si fa uomo, accetta con umiltà la
conseguenza di tale scelta fino alla morte e per questo Dio l’ha esaltato. Il
nostro cammino di conformazione a Cristo non è e non può essere una cosa
semplice e comoda, semplicemente perché non è stato né semplice né comodo neppure
per Lui, vivere così.
Caratteristiche di questo
nostro essere cristiani: tenerezza,
bontà, umiltà, mansuetudine, magnanimità, sopportazione, perdono. Lo strumento
e virtù che raccoglie tutti questi è l’Amore,
il frutto finale è la pace.
È tutto un crescere, come
se ogni virtù sia il frutto di quella precedente e causi quella successiva.
Allora si inizia con la tenerezza che non è debolezza, ma
capacità di controllare il nostro carattere duro, la nostra tentazione di
reagire in modo primario e violento, capacità di ammorbidire il nostro
carattere per far spazio ai bisogni dell’altro (il testo greco dice: viscere di
compassione). Questo ci rende più buoni.
La bontà o benignità è la seconda tra le caratteristiche dell’Agape
nell’inno di 1 Cor 13. Racchiude allo stesso tempo un atteggiamento di
accoglienza e di servizio. Chiaramente il servizio è possibile se si è umili.
L’umiltà è l’atteggiamento
con cui noi pensiamo a noi stessi, non come padroni e centro di interesse, ma
come strumenti di un piano che è più grande di noi.
Chi è umile è mansueto, l’atteggiamento dell’agnello
condotto al macello che non reagisce di fronte all’ingiustizia che gli viene
inferta ma la accetta come atto redentivo.
Diventa magnanimo cioè dal cuore largo capace
di accogliere tutto come parte del piano di Dio.
Sopportazione cioè
accettazione incondizionata dell’altro che nonostante tutte le sue debolezze è
mio fratello e oggetto, come me, dell’amore di Dio e del desiderio di Dio di
salvarlo.
Allora il perdono è l’unica conseguenza
possibile. Quante volte? Fino a 7? No, all’infinito (7x10x7).
Come abbiamo già detto
tutto questo processo è possibile solo
se si vive con il cuore ripieno dall’amore di Cristo. Ricordate il motto
paolino tanto caro a Don Orione: “Charitas Christi urget nos”, ma anche tutta
la teologia paolina dell’amore di 1 Cor. 13, e infine il capitolo 8 della
lettera ai Romani: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”.
Frutto di tutto questo è la Pace. Sappiamo bene che la pace nel
mondo giudeo non è la mancanza di guerra ma prima di tutto un’attitudine
interiore data dal sapere di essere in comunione con Dio e che ci permettere di
costruire all’esterno tutte quelle condizioni che favoriscano anche la pace
esteriore.
Veniamo ora alla seconda
raccomandazione: La Parola di Dio
abiti tra voi nella sua ricchezza.
Si capisce subito che non
si parla del conoscere la bibbia e neanche solo dell’usarla o dell’insegnarla.
Non possiamo limitarci a dire: Io l’ho studiata per anni e l’ho predicata per
anni. Il profeta Isaia ha il famoso passaggio: “Come la pioggia e la neve
scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver fecondata la terra e fatta
germogliare; così la mia parola…”. La parola deve diventare il motore del
nostro agire, il punto di riferimento delle nostre scelte, il criterio di
verifica.
“Istruitevi e ammonitevi a vicenda”, naturalmente con la Parola di
Dio che è “buona Notizia”, messaggio di salvezza, parliamo e agiamo a nome di
Dio che è Amore.
“Con gratitudine”, non con rabbia, orgoglio, vendetta. L’altro è un dono
di Dio per me, anche quando sembrerebbe essere un peso, allora prima di
chiedere a Dio che lo faccia cambiare, o chiedere ai superiori che lo cambino,
devo ringraziare Dio di avermelo messo a fianco.
“Cantando
a Dio nei vostri cuori”. La preghiera
è il mezzo di comunicazione, e naturalmente la preghiera fatta assieme, la
liturgia celebrata assieme, la Parola di Dio condivisa assieme, sono vincolo di
unità e strumento di successo nella comunità.
Terzo momento è quello dell’apostolato.
“E qualunque cosa facciate …”. Quel “qualunque cosa” ci dice che si
parla sia che noi facciamo direttamente come opera di carità la carità, sia che
si tratti di predicare o insegnare, ma anche il nostro lavorare in ufficio o il
nostro studiare, dato che li facciamo per far sì che l’apostolato sia più
efficace,
“tutto avvenga nel nome del
Signore Gesù”. Nel nome di … usiamo
questa espressione tante volte ogni giorno quando iniziamo una cosa o una
preghiera, facendo il segno della croce. Questo non vuol solo dire: lo faccio
perché sono cristiano. Quando un ambasciatore o un messaggero si presenta “nel
nome” del re, si presenta con tutta l’autorità e la forza di questo re. Se gli
viene fatto qualcosa è come lo si facesse al re stesso. Chi ci incontra, nel
nostro apostolato, non deve vedere o sentire solo noi, apprezzare la nostra
bravura o preparazione, deve fare una vera esperienza del Dio che agisce in
noi, deve sentirsi beneficato dal Dio che lo ama e lo sta beneficando. Allora,
come ha detto San Giovanni Battista: “io devo diminuire perché lui cresca”, e
come ha detto Maria: “Ha guardato all’umiltà della sua serva ora tutte le
generazioni mi chiameranno beata".
La miglior lode che possiamo dare a Dio è far sì che il mondo lo lodi per quanto viene
fatto da noi a nome suo. Dov’è il protagonismo che troppo spesso ci
caratterizza? La ricerca di lode, la ricerca del riconoscimento e
dell’approvazione degli altri? Quanti compromessi facciamo a scapito della
verità solo per garantirci l’accettazione degli altri e il successo umano?