Il diavolo come leone ruggente va in giro cercando chi divorare


S. Messa alle suore in occasione dell’assemblea generale delle suore Sacramentine cieche.
Roma 25 Aprile 2016

1 Pt 5:5-14

Ogni settimana, al martedì sera, durante la recita della compieta, leggiamo questo brano di San Pietro: Il diavolo come leone ruggente va in giro cercando chi divorare. A me ha sempre colpito questa frase e cercavo di immaginarmi questo leone che va in giro e io da qualche parte cercando di nascondermi. Ma cosa vuol dirci San Pietro? Naturalmente il leone come tutti gli animali non mangia di tutto, per esempio la verdura e la frutta lui non le mangia, lui vuole la carne. San Pietro dice che viene in cerca di noi per divorarci. Quali sono le cose che cerca in noi, che lo attirano. Uno penserebbe subito ai peccati, e invece io credo che lui guardi a qualcos’altro. Per me lui guarda a tutti quei punti deboli che pur non essendo peccati però non ci fanno vivere bene alla presenza di Dio. Questi sono punti di accesso in cui lui può cercare di entrare e fanno di noi delle prede preziose. Il Papa nella sua lettera Evangelii Gaudium riformula questa mia analisi utilizzando delle espressioni molto colorite. Lui dice che le tentazioni che i religiosi e gli operatori pastorali si trovano ad affrontare nel mondo di oggi sono 4 e lui le chiama: “Accidia egoista; pessimismo sterile; mondanità spirituale, guerra tra di noi”.
Io le spiego così:
All'inizio c'è una ripetitività o meccanicità della vita che porta alla freddezza. Naturalmente non sto parlando dell’orario, della fedeltà, che naturalmente sono delle virtù, non delle debolezze. Sto parlando di quell’atteggiamento che ci toglie l’attenzione, il gusto di fare le cose, ci toglie l’entusiasmo. Andiamo in chiesa a pregare, recitiamo le lodi, partecipiamo alla messa, cantiamo e poi quando usciamo non ci ricordiamo neppure quale fosse il vangelo, che santo fosse oggi perché il pregare è stato una cosa tanto automatica che non ha richiesto nessuno sforzo nessuna attenzione da parte nostra. Abbiamo soddisfatto un obbligo, quello della preghiera, ma abbiamo veramente avuto un incontro con il Signore? Don Orione chiamava queste persone “acquechete” e diceva di temere loro più che le persone ribelli perché i ribelli si vede cosa fanno e cosa dicono mentre questi sono come acqua di palude che sembra tranquilla ma diventa marcia e porta tante malattie.
Con questa meccanicità viene la noia. Quando le cose non sono vissute a pieno non ci attirano più, non danno più senso. Allora non abbiamo più neanche lo stimolo di cambiare, di reagire.
Si introduce qui un’esagerata attenzione alla soddisfazione personale, alle gratificazioni che ci vengono da tante piccole cose esterne e che ci distaccano sempre più da quelle spirituali.
Allora si arriva all’accidia. Essa è nominata tra i vizi capitali, ma anche senza arrivare a livello di peccato grave, l’accidia ci dice: se il pregare non ti dà più soddisfazione, anche se manchi una volta non cambia niente. Se l’andare in chiesa serve solo a fare contenta la comunità, la preghiera personale la posso omettere; quando la comunità è assente non c’è bisogno di pregare. Alle volte mi capita di incontrare dei seminaristi che quando vanno a casa in vacanza vanno a messa solo alla domenica, se poi gli chiedi come mai ti rispondono che la chiesa è distante, che devono andare nei campi ad aiutare i genitori eccetera; senza parlare dei preti che si limitano a celebrare le parti del breviario dette in comunità.
Si diventa pessimisti verso le cose che la comunità richiede o la Chiesa ci indica, le sentiamo esagerate, fuori posto, impossibili da realizzare. Subentra lo scoraggiamento, la sfiducia verso quello che dobbiamo fare ma soprattutto verso quello che siamo, allora non attiriamo più la gente, ci richiudiamo in noi stessi, cominciamo a dubitare di quello che facciamo o siamo, ci riteniamo dei fuori posto e quindi aspettiamo solo che la provinciale ci cambi di posto.
Si comincia a pensare sempre più come pensa il mondo, a fare sempre più calcoli umani, a rigettare le idee delle nostre sorelle, a sentire fastidio quando parla qualcuno che pensa in modo diverso. In alcuni casi l’unica soluzione possibile ci sembra essere quella di andare via.

Questo processo che ho descritto a tinte forse troppo forti si inserisce un po’ alla volta nella nostra vita senza che ce ne accorgiamo. Quando ci rendiamo conto che c’è qualcosa che non va troviamo tante ragioni per non cambiare, per mantenere la situazione: l’età che avanza, i tempi che sono cambiati e si fa fatica ad adattarsi ai nuovi stili, il troppo lavoro, la distanza fisica, il credere che tanto nessuno pensa a noi, tanto niente cambierà eccetera.
Cosa fare?
È di nuovo San Pietro che ci dà una prima risposta: “Rivestitevi di umiltà”. L’umiltà è una parola spesso incompresa. Si pensa che umiltà voglia dire nascondersi, rimanere zitti, non dare mai il nostro contributo, evitare i commenti degli altri, rinunciare a cariche o onori. Quindi una cosa negativa fatta solo di sacrificio e rinuncia.
Invece no. Umiltà è riconoscere che tutto viene da Dio, che noi stessi siamo un dono di Dio. Umiltà è mettere Cristo al centro di tutto quello che facciamo o diciamo. L'umiltà richiede che riconosciamo le nostre debolezze, gli sbagli, che li abbracciamo, li riconosciamo come doni di Dio, come momenti in cui Dio sta agendo e sta agendo per la nostra salvezza. Sempre San Pietro nella lettura di oggi dice: “Il Dio di ogni grazia ….. dopo che avrete un poco sofferto, vi ristabilirà, vi confermerà, vi rafforzerà, vi darà solide fondamenta”. Perché? Perché “ci ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù”.
Allora umiltà è anche riconoscere le nostre doti, le nostre capacità, la possibilità di dare sempre e comunque un nostro contributo, riconoscere che esse sono dono di Dio da non sprecare, che noi siamo dono di Dio, preziosi ai suoi occhi.
È quindi possibile capovolgere il processo di cui abbiamo parlato all’inizio, di fare marcia indietro.
Qui subentra un secondo aiuto indicatoci da Papa Francesco: la gioia, il sorriso, la pace interiore. Questi non sono atteggiamenti artificiali, sforzati ma conseguenze dell’umiltà, sono anzi la prova che stiamo riuscendo nel cammino per imparare questa grande virtù. La gioia del Vangelo, la gioia del vivere con Cristo per Cristo e in Cristo e con lui nella Trinità intera.
Tutto questo è basato sulla fede. Il Vangelo di oggi ci dice: “Quelli che crederanno faranno miracoli”, cose di per sé impossibili agli occhi umani, ma noi abbiamo abbandonato la mondanità spirituale per riempirci di Cristo quinti tutto è possibile in Lui.
Che il Signore ci dia l’umiltà di accettare i suoi doni, il coraggio di utilizzarli, la forza di esservi fedeli, e la gioia di testimoniarli.
Sia lodato Gesù Cristo.

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