Alla ricerca della perfezione
La perfezione nell’imperfezione, la vittoria nella sconfitta. Dove troviamo Dio?
(Mt. 28,16-20)
Oggi celebriamo la festa della Santissima Trinità. È una di quelle feste che mettono in crisi i predicatori. Come d'altronde parlare della Trinità mette in crisi i professori di teologia o di filosofia. È un fatto: noi vogliamo capire tutto, poter spiegare tutto.
Che cos'è questa Trinità? Come funziona? Che senso ha? È una cosa possibile? Noi vogliamo avere la conoscenza perché pensiamo che ciò che conosciamo lo possiamo maneggiare utilizzare nel modo giusto, come se la Trinità fosse un apparecchio elettronico di cui possiamo leggere il manuale.
E invece la Trinità è una di quelle realtà che non si possono possedere o comprendere, ma di cui bisogna fare esperienza.
Quando si cerca di spiegare una realtà troppo al di sopra delle nostre capacità intellettuali, si rischia di cadere in teorie banali. Io ricordo una catechista, figlia di contadini, che spiegava ai suoi bambini: vedete la forca, ha tre denti, La forca è una o è 3? È una, ma i denti sono tre. Ecco, così la Trinità. Oppure qualcuno con più fantasia che diceva: vedete la luce in questa stanza? La luce è una, ma da dove viene la luce? Dalle lampadine che sono accese. Ma le lampadine sono tre. Allora abbiamo tre luci? No! La luce è una e le lampadine sono tre.
Voi capite che sono tutti i tentativi più o meno belli, ma sono tentativi. D'altronde è giusto così. Abbiamo sete di essere con Dio di conoscerlo, come si vuol conoscere una persona che per noi è importante. E questa sete c'è l’ha data Lui stesso. I professori di sociologia dicono che il senso religioso delle persone è nato dal fatto di trovarsi di fronte ad avvenimenti grandi, straordinari, di cui essi non potevano darsi ragione. Un uomo primitivo si trova di fronte ad un enorme incendio che è più forte di lui e gli fa sperimentare la sua impotenza; non lo può controllare, allora lo attribuisce a una divinità, cioè a un essere superiore, invisibile, che in qualche modo si sta manifestando. Lo stesso si può dire del vento, del sole, di un mare infinito, eccetera. Tutto quello che non riusciamo a spiegare, lo attribuiamo a un Dio. Questa è una spiegazione della sociologia; noi crediamo che il senso del Divino ci è dato da Dio stesso che vuole rimanere in comunicazione con noi, e questo appartiene alla nostra natura, perché portiamo in noi qualche cosa di Dio. Esso, però, si manifesta in maniera molto umana. Noi da bambini quando siamo ancora neonati, cominciamo a percepire la presenza di una madre e capiamo che c'è un qualche cosa di speciale in lei, qualcosa che ci unisce a lei in un modo tutto particolare. Poi un po' alla volta scopriamo altre persone; anche loro sono importanti, però sono diverse; il nostro rapporto con loro non è più su un livello verticale come quello con i genitori, ma più normale; sono i fratelli, i parenti, gli amici. Questa esperienza che potremmo chiamare amore, e che ha manifestazioni diverse, quello verso la madre o il padre e quello verso i fratelli, ad un certo punto trova una rappresentazione ancora più particolare in una persona che noi potremmo chiamare “l'innamorato”, una persona che fa la differenza perché con lei tutto è diverso, in lei riusciamo a capire, a dar senso a tutto quello che facciamo. Ebbene queste tre diversità di amore sono tre rapporti diversi con dei bisogni interni che si fissa nella nostra mente e a cui possiamo fare riferimento. Di essa si serve Dio quando irrompe nella nostra vita, perché attraverso di essa diamo un senso alla nostra sete di Divino.
La Trinità dobbiamo sperimentarla prima che capirla, anche se la nostra sarà sempre un’esperienza limitata.
Però sperimentare qualche cosa che è più grande di noi, ci porta a sperimentare anche alla nostra limitatezza.
L'esperienza della nostra insufficienza è una cosa positiva, non negativa, perché ci insegna il modo giusto di mettersi in relazione con qualcuno di più grande. Una persona, di fronte ai suoi errori, potrebbe disperarsi, ma la maggior parte sviluppa il desiderio di ricercare il perfetto, e questo apre la porta a una relazione con Dio; quindi l'esperienza della nostra insufficienza è una via privilegiata per la ricerca di Dio.
Gli apostoli hanno fatto una simile esperienza. Finché vivevano con Gesù credevano di essere immortali. Lui faceva miracoli, poteva risolvere tutti i problemi, aveva sempre tutte le risposte giuste. Si credevano forti perché erano con uno forte. Sono dovuti passare attraverso l'esperienza della delusione, della sconfitta, del tradimento, per riscoprire che loro non sono perfetti. Hanno quindi scoperto di aver bisogno di Gesù. Ora sono pronti a riconoscere in Gesù non solo l’uomo, ma il Dio e quindi a cogliere la resurrezione e accettare che lui è sempre presente, anche se in maniera diversa. Ora possono riconciliare la loro impotenza con la presenza dell'Onnipotente.
Noi abbiamo un grande desiderio di perfezione, vogliamo raggiungerla e ci sforziamo a farlo, ma più tentiamo, più essa sembra lontana perché lavoriamo da soli, con le nostro povere forze. Allora con la nostra immaginazione descriviamo Dio come Colui che può fare tutto ciò che vuole, che risolve tutti i nostri problemi. Ma il Dio di Gesù Cristo è ben diverso; è un Dio che accetta di essere arrestato, schernito, colpito, messo a morte.
Dobbiamo fare questa esperienza del Dio che muore, per comprendere il Dio che risorge, per poter comprendere quanto grande sia l’amore del Dio Padre che ci ha dato suo Figlio, pur sapendo che l'avremmo messo a morte.
Dobbiamo fare l'esperienza che Gesù vuole rimanere con noi nonostante la nostra debolezza, e ci dà lo Spirito perché ci accompagni in ogni momento e dia senso a questi nostri momenti bui.
È bello vedere che per continuare la sua missione, Gesù sceglie gente debole e paurosa; dà fiducia a coloro che sono ancora macchiati dalla vergogna di averlo tradito. Essi non sono chiamati a predicare la strepitosa forza di Dio, ma il suo amore, un amore che essi hanno compreso in modo pieno proprio mentre si trovavano nell’errore, nella paura. Inoltre, nel vangelo di Matteo, Gesù non appare agli apostoli a Gerusalemme, ma invia loro un messaggio attraverso le donne dicendo che tornino in Galilea. La Galilea è il loro luogo di origine, lontano dalla città santa e dal tempio, abitato da gente comune, magari un po’ sospetta come lo sono sempre quelli lontani dal centro.
Lì essi devono salire “sul monte”, non ci viene detto quale, ma devono innalzarsi sopra la quotidianità senza staccarsi da essa, per ricercare quel qualcuno che ha cambiato la loro vita. Sono ancora pieni di contraddizioni, si inginocchiano per adorarlo ma dubitano di Lui. Gesù non fa nessun accenno alla loro debolezza, si limita a dare loro il mandato come fossero le persone più esperte e perfette. Noi spendiamo troppo tempo della nostra vita a leccare le ferite dei nostri sbagli, a filosofare sui nostri errori e come evitarli, e ci dimentichiamo che siamo chiamati da Dio e abbiamo una missione da compiere: annunciare il suo amore.
Dobbiamo passare dall'esperienza della sconfitta per comprendere la bellezza della vittoria. La perfezione che noi abbiamo attribuito a Dio non è la perfezione di chi vince sempre, ma è la perfezione di chi sa trasformare tutto, anche le sconfitte, in vittoria. Dobbiamo imparare che per Dio, vincere non è reprimere o annientare i nemici, ma amare e promuovere tutto e tutti. L'amore si manifesta più nella sofferenza che nelle conquiste materiali.
Oggi celebriamo la Trinità; cosa celebriamo? Chi celebriamo? O meglio: Che cosa sperimentiamo dentro di noi?
Ecco, la domanda giusta non è “chi è Dio?”, ma “chi siamo noi?”.