Ribelli o compiacenti? Figli!
I due figli: “Chi dei due ha compiuto la volontà del Padre?” (Mt 21:28-33)
Il brano evangelico oggi ci presenta una parabola molto interessante. Una scena famigliare normale che ci aiuta a scavare nelle ragioni più profonde del nostro comportamento.
Un uomo chiede ai figli di andare a lavorare nel campo. Il primo figlio appare essere molto bravo, rispettoso, infatti chiama il padre “Signore”; è disponibile, e dice subito di sì; ma appena uscito di casa, cambia idea e non va. Il secondo figlio, invece, è più ingenuo, ha un carattere rude e sgarbato, e risponde al Padre senza rispetto. “No! non ho voglia”. Anche lui, appena uscito di casa, cambia parere, si accorge di aver mancato di rispetto al Padre, si pente e va a lavorare.
Alla fine Gesù chiede a chi lo ascolta: “Chi dei due ha compiuto la volontà del Padre?” La risposta è ovvia: Il secondo.
Come al solito, la parabola di Gesù ha un duplice valore: il significato storico per cui l’ha pronunciata e quello attuale che coinvolge noi oggi.
Dal punto di vista storico, non ci sono dubbi che Gesù stia paragonando l’atteggiamento dei Sommi Sacerdoti e degli anziani del popolo, con i quali sta discutendo in quel momento. Dobbiamo ricordare che la parabola è raccontata subito dopo l’ingresso in Gerusalemme; siamo già nella Settimana Santa. Ormai la frattura fra Gesù e i capi dei sacerdoti e del popolo è incolmabile. Subito prima di pronunciare queste parole aveva scacciato i venditori del Tempio accusandoli di ipocrisia e di usare il luogo sacro e le preghiere per il guadagno personale. Naturalmente quel gesto aveva causato l’ira del potere religioso e civile, persone che Gesù considera, appunto, come il primo figlio della parabola: tutto esteriorità e ricerca solo dell’interesse personale. Essi esteriormente erano perfetti e obbedienti, ma avevano un cuore egoista e bugiardo. Contrapposti a loro c’è la gente semplice in cui lui include anche i tanti peccatori che stavano accogliendo la sua predicazione, e molti dei quali, oltre che considerarlo amico, si stavano convertendo. Allora la frase centrale del brano è: “In verità vi dico che i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio”.
A noi, però interessa di più l’attualizzazione di questo brano.
I due figli rappresentano due atteggiamenti diversi con i quali ci rapportiamo con Dio. Il primo figlio rappresenta una persona osservante, fedele, ma il rispetto che lui ha per il padre non è vero amore ma solo apparenza esterna, infatti lo chiama “signore”, come se si considerasse un servo che fa un lavoro e si aspetta una paga. Quindi è rinchiuso su se stesso e ha paura di dire la verità, vuole che il padre pensi bene di lui, ma non è disposto a sacrificarsi. Il suo “onore” nasconde la falsità; egli non è quella persona che tutti credono esso sia.
Nel secondo figlio c’è forse poco onore, forse la gente lo giudica male, ma di certo non c’è falsità e c’è amore.
A mio parere, però, più che creare una divisione nella società di oggi tra “buoni” e “cattivi”, sembra che Gesù indichi due atteggiamenti ugualmente presenti in ciascuno di noi: da una parte la compiacenza, dall’altra la ribellione.
Per compiacenza indichiamo l’atteggiamento di chi esternamente fa di tutto per “compiacere” alla persona che gli sta davanti senza però aderire a questo comportamento con il cuore. Il fatto di farsi vedere obbedienti, laboriosi, fedeli, è spesso causato dalla paura o dal timore di perdere l’affetto. Diciamo sì anche quando non lo vogliamo, per paura di infastidire, di dare una frustrazione all’altro o per evitare che la relazione si spezzi.
In noi c’è però anche la ribellione. Questo è un atteggiamento più facile da comprendere. Esteriormente mostriamo ostilità, disinteresse, come se volessimo difendere la nostra libertà di scelta e di azione. Spesso, però, le nostre proteste sono infondate, sono in realtà solo un modo per esprimere il nostro bisogno di essere amati. Anche qui c’è ricerca di affetto, anche se non si riesce a gestirla; siamo arrabbiati con noi stessi per questa nostra incapacità, e, normalmente esprimiamo questa rabbia repressa sfogandola contro chi amiamo di più e dai quali vogliamo essere amati. Lo facciamo inconsciamente perché la reazione negativa dell’altro è un modo per confermare la nostra incapacità.
La ribellione e il compiacimento, quindi, come Gesù ci fa vedere, non sono comportamenti autentici, ma solo modi opposti di nascondere ciò che non abbiamo il coraggio di ammettere.
Questa lotta interna non può non ricadere anche sulla nostra relazione con Dio che si presenta a noi come padre. Come abbiamo detto, Gesù sta pensando a quella parte del popolo di Israele che è ossessivamente concentrata sui doveri da compiere (preghiere rituali, digiuni, pagamento di tasse, osservanza stretta di tutte le regole) per ottenere il favore di Dio. Lui vuole far loro notare che spesso questa osservanza esterna può non essere congruente con quello che si prova nel cuore, anzi, molte volte, l’ostentazione di rigore e ascesi esterna, servono a nascondere a se stessi e agli altri quello che si prova veramente nel cuore: «Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me», aveva detto poco prima Gesù (Mt 15,8) citando il profeta Isaia.
La parabola ci pone delle forti provocazioni.
Spesso desideriamo che la gente parli bene di noi, pensi che siamo bravi, buoni, disponibili, servizievoli, ma non diamo importanza alla verità e all’amore. Il nostro non è servizio, ma solo la ricerca di soddisfare il vuoto che abbiamo dentro attraverso la lode o l’apprezzamento degli altri. Anche da un punto di vista psicologico, sappiamo che l’osservanza esterna è spesso una struttura che ci costruiamo o in cui ci rifugiamo per evitare di guardare quello che c’è veramente dentro di noi. Spesso ci permettiamo di giudicare gli altri, quelli che non si comportano come noi, ma alla fine loro ci passeranno davanti in Paradiso.
Nella vita non ci si può accontentare delle esteriorità, delle apparenze, esse ci porteranno all’inferno. Bisogna invece sforzarsi di vivere con coerenza, con verità, con amore.
I pubblicani e le prostitute, a cui Gesù fa riferimento, sono coloro che sono privi dell’abito della legge, sono trasgressori, sono visti e si vedono nella loro nudità; non hanno nulla da nascondere, ma, una volta compresa la loro situazione, hanno il coraggio di convertirsi e cambiare vita, con sincerità.
La parabola che Gesù ci racconta, ci invita, in qualche modo, a metterci a nudo, a spogliarci per un attimo delle strutture e dei ruoli, delle abitudini e dei riti, per guardarci così come siamo, nella profondità complessa e misteriosa della nostra relazione con il Padre, e chiederci: “Io perché agisco così?” “Davvero amo Dio e i fratelli, o lo faccio solo ricercando soddisfazione personale?”.
Un uomo chiede ai figli di andare a lavorare nel campo. Il primo figlio appare essere molto bravo, rispettoso, infatti chiama il padre “Signore”; è disponibile, e dice subito di sì; ma appena uscito di casa, cambia idea e non va. Il secondo figlio, invece, è più ingenuo, ha un carattere rude e sgarbato, e risponde al Padre senza rispetto. “No! non ho voglia”. Anche lui, appena uscito di casa, cambia parere, si accorge di aver mancato di rispetto al Padre, si pente e va a lavorare.
Alla fine Gesù chiede a chi lo ascolta: “Chi dei due ha compiuto la volontà del Padre?” La risposta è ovvia: Il secondo.
Come al solito, la parabola di Gesù ha un duplice valore: il significato storico per cui l’ha pronunciata e quello attuale che coinvolge noi oggi.
Dal punto di vista storico, non ci sono dubbi che Gesù stia paragonando l’atteggiamento dei Sommi Sacerdoti e degli anziani del popolo, con i quali sta discutendo in quel momento. Dobbiamo ricordare che la parabola è raccontata subito dopo l’ingresso in Gerusalemme; siamo già nella Settimana Santa. Ormai la frattura fra Gesù e i capi dei sacerdoti e del popolo è incolmabile. Subito prima di pronunciare queste parole aveva scacciato i venditori del Tempio accusandoli di ipocrisia e di usare il luogo sacro e le preghiere per il guadagno personale. Naturalmente quel gesto aveva causato l’ira del potere religioso e civile, persone che Gesù considera, appunto, come il primo figlio della parabola: tutto esteriorità e ricerca solo dell’interesse personale. Essi esteriormente erano perfetti e obbedienti, ma avevano un cuore egoista e bugiardo. Contrapposti a loro c’è la gente semplice in cui lui include anche i tanti peccatori che stavano accogliendo la sua predicazione, e molti dei quali, oltre che considerarlo amico, si stavano convertendo. Allora la frase centrale del brano è: “In verità vi dico che i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio”.
A noi, però interessa di più l’attualizzazione di questo brano.
I due figli rappresentano due atteggiamenti diversi con i quali ci rapportiamo con Dio. Il primo figlio rappresenta una persona osservante, fedele, ma il rispetto che lui ha per il padre non è vero amore ma solo apparenza esterna, infatti lo chiama “signore”, come se si considerasse un servo che fa un lavoro e si aspetta una paga. Quindi è rinchiuso su se stesso e ha paura di dire la verità, vuole che il padre pensi bene di lui, ma non è disposto a sacrificarsi. Il suo “onore” nasconde la falsità; egli non è quella persona che tutti credono esso sia.
Nel secondo figlio c’è forse poco onore, forse la gente lo giudica male, ma di certo non c’è falsità e c’è amore.
A mio parere, però, più che creare una divisione nella società di oggi tra “buoni” e “cattivi”, sembra che Gesù indichi due atteggiamenti ugualmente presenti in ciascuno di noi: da una parte la compiacenza, dall’altra la ribellione.
Per compiacenza indichiamo l’atteggiamento di chi esternamente fa di tutto per “compiacere” alla persona che gli sta davanti senza però aderire a questo comportamento con il cuore. Il fatto di farsi vedere obbedienti, laboriosi, fedeli, è spesso causato dalla paura o dal timore di perdere l’affetto. Diciamo sì anche quando non lo vogliamo, per paura di infastidire, di dare una frustrazione all’altro o per evitare che la relazione si spezzi.
In noi c’è però anche la ribellione. Questo è un atteggiamento più facile da comprendere. Esteriormente mostriamo ostilità, disinteresse, come se volessimo difendere la nostra libertà di scelta e di azione. Spesso, però, le nostre proteste sono infondate, sono in realtà solo un modo per esprimere il nostro bisogno di essere amati. Anche qui c’è ricerca di affetto, anche se non si riesce a gestirla; siamo arrabbiati con noi stessi per questa nostra incapacità, e, normalmente esprimiamo questa rabbia repressa sfogandola contro chi amiamo di più e dai quali vogliamo essere amati. Lo facciamo inconsciamente perché la reazione negativa dell’altro è un modo per confermare la nostra incapacità.
La ribellione e il compiacimento, quindi, come Gesù ci fa vedere, non sono comportamenti autentici, ma solo modi opposti di nascondere ciò che non abbiamo il coraggio di ammettere.
Questa lotta interna non può non ricadere anche sulla nostra relazione con Dio che si presenta a noi come padre. Come abbiamo detto, Gesù sta pensando a quella parte del popolo di Israele che è ossessivamente concentrata sui doveri da compiere (preghiere rituali, digiuni, pagamento di tasse, osservanza stretta di tutte le regole) per ottenere il favore di Dio. Lui vuole far loro notare che spesso questa osservanza esterna può non essere congruente con quello che si prova nel cuore, anzi, molte volte, l’ostentazione di rigore e ascesi esterna, servono a nascondere a se stessi e agli altri quello che si prova veramente nel cuore: «Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me», aveva detto poco prima Gesù (Mt 15,8) citando il profeta Isaia.
La parabola ci pone delle forti provocazioni.
Spesso desideriamo che la gente parli bene di noi, pensi che siamo bravi, buoni, disponibili, servizievoli, ma non diamo importanza alla verità e all’amore. Il nostro non è servizio, ma solo la ricerca di soddisfare il vuoto che abbiamo dentro attraverso la lode o l’apprezzamento degli altri. Anche da un punto di vista psicologico, sappiamo che l’osservanza esterna è spesso una struttura che ci costruiamo o in cui ci rifugiamo per evitare di guardare quello che c’è veramente dentro di noi. Spesso ci permettiamo di giudicare gli altri, quelli che non si comportano come noi, ma alla fine loro ci passeranno davanti in Paradiso.
Nella vita non ci si può accontentare delle esteriorità, delle apparenze, esse ci porteranno all’inferno. Bisogna invece sforzarsi di vivere con coerenza, con verità, con amore.
I pubblicani e le prostitute, a cui Gesù fa riferimento, sono coloro che sono privi dell’abito della legge, sono trasgressori, sono visti e si vedono nella loro nudità; non hanno nulla da nascondere, ma, una volta compresa la loro situazione, hanno il coraggio di convertirsi e cambiare vita, con sincerità.
La parabola che Gesù ci racconta, ci invita, in qualche modo, a metterci a nudo, a spogliarci per un attimo delle strutture e dei ruoli, delle abitudini e dei riti, per guardarci così come siamo, nella profondità complessa e misteriosa della nostra relazione con il Padre, e chiederci: “Io perché agisco così?” “Davvero amo Dio e i fratelli, o lo faccio solo ricercando soddisfazione personale?”.