La Fede e le Chiavi del Regno

 Il maggiordomo e il portinaio. (Mt16,13-20)

Da due domeniche stiamo vedendo che Gesù si concentra sui suoi discepoli per formarli bene. Sta per iniziare il viaggio definitivo verso Gerusalemme, il viaggio più difficile per loro perché dovranno passare attraverso la prova finale, quella della morte di Gesù, ma anche il viaggio più importante perché poi toccherà a loro portare avanti la missione, la Chiesa, e far sì che essa si espanda nel mondo intero.

Anche il vangelo di oggi e quello di domenica prossima fanno parte dei preparativi a questo viaggio.

Domenica scorsa Gesù aveva portato i discepoli in territorio straniero, oggi li porta a Cesarea di Filippo. Teoricamente siamo in territorio di Israele, o meglio quello che in quel tempo si chiamava la Traconitide e oggi sono le alture del Golan. Questa è forse la zona più bella e più fertile di tutto il Medio Oriente, ricca di acqua e piante. Qui il re Filippo, figlio di Erode il Grande e fratello di Erode Antipa, aveva costruita la sua capitale e l’aveva chiamata “Cesarea” in onore all’imperatore di Roma, e vi aveva posto alcuni templi, uno dedicato al divino Augusto, uno alla dea Roma, uno al Dio Pan. Uno dei suoi palazzi si trovava proprio di fronte alle sorgenti del fiume Giordano

In questo ambiente di lusso e potere Gesù provoca gli apostoli perché, dopo due o tre anni passati insieme, vuole conoscere l’idea che essi hanno di Lui. È interessante notare che di solito siamo noi che facciamo delle domande su Dio: chi è? Dove sta? Cosa fa? ecc. Anche la gente, ogni volta che Gesù faceva un miracolo o predicava, si chiedeva: “Chi è questo Gesù?” “Da dove viene?”; però questa volta è lui che chiede, è lui che ci obbliga a riflettere e a domandarci: Chi è Gesù per me? Cosa mi aspetto da Lui?

Inizia facendo una domanda generica: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Chiaramente si sta riferendo a se stesso, ma usa l’espressione Figlio dell’uomo per dire: che tipo di uomo la gente vede in me? Il mio stile di vita, le mie scelte, sono state comprese, accolte? Quale aspetto del mio essere, del mio agire, apprezzano? La domanda è importante perché nel presentare le caratteristiche delle persone che stimiamo, indirettamente mostriamo quali sono le nostre scelte di vita; ma domandare è anche pericoloso perché si potrebbe rimanere delusi dalle risposte, scoprire che la gente non ha capito niente di noi. Naturalmente Gesù non si aspetta che la gente comune abbia compreso la sua divinità, ma che abbia colto almeno gli aspetti umani del suo comportamento: l’amore per gli ultimi, il servizio, l’universalità del suo messaggio che vuole abbracciare tutto il mondo. Le risposte date, di per sé sono buone. Giovanni il Battista, Elia, Geremia erano personaggi sicuramente positivi e amati dalla gente, Giovanni per il suo coraggio nel parlare diretto alla gente rinfacciandogli i loro peccati, Elia per il suo coraggio nel combattere i falsi profeti, Geremia per la fedeltà alla sua missione; quindi la gente vede in Gesù un profeta, buono, onesto, forte, ma non c’è niente di nuovo in tutto questo, è uno come tanti, magari migliore ma non diverso; si rimane nella vecchia religione. Qual è la strategia di Gesù? Lasciarsi prendere dalla delusione e lasciar perdere tutto? Oppure abbassare le sue aspettative ed adattarsi a quello che piace alla gente? No! Gesù rilancia ma in un modo diverso, fa un salto di qualità. Ora si rivolge ai dodici apostoli. La domanda che rivolge loro è più diretta, non si riferisce più all’immagine, all’esteriorità, ma chiede: «E voi, chi dite che io sia?». Queste parole vanno all’essenza delle cose: cosa hanno capito veramente di Lui. Facendo questa domanda, Gesù crea una certa divisione tra gli apostoli e le altre persone. Il suo scopo è iniziare qui la nuova famiglia formata dalle persone a cui, ora, si dedicherà a tempo pieno, perché essi saranno il fondamento della Chiesa.

Pietro avvalora questa scelta dando una risposta perfetta dal punto di vista teologico: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». La Chiesa è la famiglia di coloro che credono in Cristo, vero uomo e vero Dio, il Salvatore.

Gesù loda questa risposta e precisa subito due fatti.

Il primo è che nessuno di noi può fare davvero la professione di fede se non è guidato dallo Spirito Santo. La fede è qualcosa di troppo alto per le nostre povere forze, ma Dio ce la dona, e la beatitudine che ne deriva non è frutto dei nostri meriti ma è anch’essa un dono di Dio. È il dono di poter dare un nome e un volto a ciò che ogni uomo cerca per tutta la vita anche senza saperlo. Nello scoprire cosa è quell’inquietudine che giace nel profondo del nostro cuore si scopre anche chi siamo noi veramente, qual è il nostro nome, quello vero, quello della parte più intima e autentica di ciascuno di noi e che descrive lo scopo, la vocazione per cui esistiamo. Ecco perché Gesù prosegue dicendo: “E io ti dico: Tu non sei più Simone ma sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”. Più si conosce Gesù e più si riesce a conoscere anche se stessi. È il miracolo dell’incontro con il Cristo.

Ma a questo miracolo va aggiunto il secondo fatto, cioè il dono delle chiavi del Regno dei Cieli.

Per comprendere bene il significato di queste parole dobbiamo rifarci alla storia e alle tradizioni di Israele. Ci viene in aiuto Il capitolo 22 del profeta Isaia che abbiamo sentito nella prima lettura. Esso è indirizzato al “Maggiordomo” della casa reale di Gerusalemme. Da noi il maggiordomo è un servo, in quei tempi era il più importante dei servi e aveva molti poteri. Nella cerimonia di investitura, oltre che ad un abito particolare che ne indicava il potere (tunica e cintura), gli veniva affidata una chiave enorme talmente grossa che doveva essere portata sulle spalle. Da quel momento lui poteva aprire e chiudere la porta del palazzo ad una persona o all’altra e nessuno poteva contrastarne la decisione. Mi viene subito il paragone con Gesù che porta sulle spalle la croce che è la chiave che apre la porta del Regno dei Cieli.

Noi siamo immersi in un mondo dove tutto è temporaneo e provvisorio, dove mancano certezze. Ebbene, il Vangelo di oggi ci dice che Pietro, dopo che ha chiamato per nome la verità sul suo maestro, riceve la chiave del cielo, quella della porta aperta dalla croce di Gesù. Pietro, il timoniere della barca che è la Chiesa, è rivestito della responsabilità delle decisioni riguardanti questa porta.

Per definire l’ambito entro cui queste chiavi funzionano, Gesù usa due verbi: sciogliere e legare. Chiaramente essi si riferiscono agli aspetti riguardanti la Fede, la Speranza e la Carità, le virtù che ci permettono di entrare nel Regno di Dio. Gli strumenti principali che la Chiesa userà per “sciogliere” tutto quello che c’è di sbagliato in noi, il peccato, le debolezze, le paure, e “legarci” in maniera indissolubile a Cristo sono i Sacramenti. Basti pensare a quello che ognuno dei sacramenti fa: Dio non chiuderà mai le porte aperte da essi. Esiste il momento in cui noi ci mettiamo contro Dio, fuggiamo lontani da Lui, ma Lui mai si metterà contro di noi.

Quindi il Legare non è un chiudere ma un unire. Paolo parla di “vincoli della carità”. La croce di Cristo ci unisce a Lui ma ci unisce anche tra di noi come ha legato Maria a Giovanni. La frase pronunciata da Gesù: “Donna ecco tuo figlio”, li unisce per sempre. Prima non erano parenti ora lo sono e in Giovanni tutti noi lo siamo. Che bello quando le persone sono legate tra di loro non da vincoli terreni ma dall’amore di Cristo, dalla fede nelle sue parole.

Veniamo ora più direttamente a noi. Di sicuro anche noi ci siamo posti la domanda: “Cosa significa Dio per me?”, Qual è il senso del mio essere un Cristiano impegnato, un religioso?

Potremmo cadere nella tentazione di dare una risposta solo accademica: “Nella bibbia c’è scritto che egli è il Salvatore del mondo”; “Nel catechismo ci hanno insegnato che egli è il Messia, il Figlio di Dio”. Queste sono scappatoie perché non ci toccano direttamente, non ci provocano a fare delle scelte decise.

Allora io dico: è possibile dire che Lui è il Salvatore del mondo e poi disperarci se le cose vanno male? È possibile dire che Lui è il Messia e poi arrabbiarci se le cose non vanno come vorremmo noi? È possibile dire che Lui è il Figlio di Dio e poi pretendere di essere i padroni di tutto, pretendere di essere al centro dell’attenzione e di ricevere onore dagli altri?

Il Dio in cui crediamo e a cui rivolgiamo la nostra preghiera, è lo stesso Dio padrone della nostra vita? Viviamo veramente secondo i suoi insegnamenti? Oppure ce ne ricordiamo solo alla domenica mattina? Quando riceviamo i Sacramenti, celebriamo tutte queste verità, allora dobbiamo farci queste domande.

Pietro ha risposto: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”. A parlare è lo stesso Pietro che due domeniche fa rischiava di annegare, che domenica scorsa voleva evitare la straniera, che domenica prossima rinnegherà la proposta di Gesù di andare verso il Calvario; È lo stesso Pietro che lo tradirà. Ma lui fu innamorato di Gesù e ogni volta che sbagliò pianse e ritornò a chiedere scusa.

Non è importante se nella nostra vita facciamo sbagli o no, l’importante è che abbiamo il coraggio di riconoscerli e chiedere perdono. L’importante è che amiamo veramente Gesù e cerchiamo di mettere in pratica in ogni momento i suoi insegnamenti.

Chi è Gesù per me? Dopo la comunione, in quei brevi momenti di silenzio cercate di dare una risposta.

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