Un innesto che dà vita

La vite e i tralci. Gv 15,1-8

Domenica scorsa Gesù aveva chiamato se stesso “il Pastore buono”. Oggi usa un altro nome, o meglio un altro oggetto a cui paragonarsi per far comprendere ai suoi ascoltatori chi Lui veramente è. Oggi dice: “Io sono la vera vite”. Cosa significa? Quando noi pensiamo alla vite pensiamo o alla possibilità di mangiare l’uva o di fare del vino o di venderla. Per il popolo d’Israele essa significava molto di più. Lungo tutto l’Antico Testamento, specialmente nei libri dei profeti, abbiamo tantissimi passi in cui si chiama il popolo di Israele “la vigna del Signore”. Alcuni di questi sono particolarmente importanti per intendere il vangelo di oggi come ad esempio il capitolo 5 di Isaia, il canto della vigna, dove si mostra tutto l’amore e la cura del Signore per la sua vigna che però al momento di produrre frutti produce solo uva selvatica; oppure il passo di Geremia 2,21 dove Dio dice a Israele: “Io ti avevo piantato come vigna scelta, tutta di vitigni genuini; ora, come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?”.

Gli Ebrei, quindi credevano di essere una buona vigna perché facevano preghiere, canti e sacrifici, ma invece erano una vite che produceva frutti selvatici perché non avevano compreso il vero senso della Parola di Dio. Lui vuole la liberazione dei prigionieri, l’attenzione ai poveri, il riscatto degli schiavi, l’attenzione alle vedove, eccetera, non i sacrifici di agnelli immolati.

Ecco allora che Gesù dice ai suoi discepoli: “Io sono la vite vera, solo rimanendo attaccati a me anche voi potrete portare frutto vero”.

Il popolo eletto, se vuole tornare ad essere tale, deve attaccarsi a Gesù e mettersi nelle mani del Padre che è il viticoltore.

Cosa vuole il Padre da noi che diciamo di essere i seguaci di Gesù? Che portiamo frutti. Questo è un punto importante. Nel breve brano che abbiamo letto oggi c’è ben 7 volte l’espressione “portare frutto”. Il profeta Ezechiele, sempre parlando di Israele, dice che il legno della vite, di fronte a tutti gli altri legni non ha alcun valore, quello che ha valore è il frutto. Quindi i profeti non condannavano il popolo in sé, ma la sua pratica religiosa che non portava frutto perché non era basata sui fatti e sulla verità.

Allora il vignaiolo che fa? “Se un tralcio non porta frutto lo toglie, se porta frutto lo pota perché porti più frutto”. Uno potrebbe chiedersi: Ma il Signore taglia sempre?

Prima di tutto va spiegata una cosa: Il Signore non taglia nessuno dalla sua connessione con Gesù, Lui vuole tutti salvi. Ognuno di noi con il battesimo è diventato parte integrante del corpo di Cristo e quindi della vite, ma non è sufficiente essere inseriti, bisogna far sì che la linfa passi attraverso la nostra vita perché possa portare frutti. Se la linfa non circola il tralcio si secca. Ognuno di noi ha in sé molti tralci, il suo carattere, la sua cultura, ma anche tutte le sue attività, pensieri, cose care, eccetera. Queste cose ci fanno crescere in modo giusto o sbagliato, usano la nostra forza per produrre frutti buoni o selvatici. Allora Dio ci guarda e in noi vede quello che non porta frutto lo taglia, quello che invece porta frutto lo pota.

Noi crediamo sempre che ci manchi tanto, che abbiamo bisogno di altre cose e invece abbiamo sempre troppo. il Sapiente ha bisogno di poco perché sa che Dio ci darà ciò di cui abbiamo bisogno. Quando viaggiamo riempiamo valigie per essere sicuri che abbiamo dietro tutto quello che potrebbe servirci e poi il viaggio diventa difficile, i bagagli sono pesanti e ingombranti. A forza di viaggiare si impara a fare valigie sempre più piccole e leggere, a portare solo l’essenziale, a sfruttare di più le risorse del luogo dove andiamo, a rinunciare a tante cose inutili. Noi accumuliamo e poi chi viene dopo butta via. Noi parliamo tanto credendo che gli altri ci valorizzino per quello che diciamo e facciamo ma la gente non lo coglie, non gli interessa, le lasciano cadere nel nulla, perdiamo del tempo e facciamo sforzi inutili. Nella nostra vita ci sono tante zavorre e bisogna lasciare che il Signore ce le tolga. Tante perdite, tanti nostri sbagli, non sono altro che delle potature benefiche. Dobbiamo liberarci da tutto ciò che non ci porta al cielo.

Anche le cose belle che facciamo potrebbero produrre frutti più acerbi o piccoli se disperdiamo le nostre forze a causa del nostro protagonismo, dell’ostentazione, della ricerca di successo personale.

Perciò il Padre pota e il potare è un’azione dolorosa ma positiva. Lui conosce quali sono le aree pesanti in ciascuno di noi che rischiano di far rompere il ramo, quali le aree deboli che possono spezzarsi, ebbene queste lui le pota. Pensiamo a certi attaccamenti morbosi a cose o persone che ci impediscono di essere liberi di agire con tutti; pensiamo a quali nostri atteggiamenti rendono gli altri schiavi; pensiamo a certi sentimenti di rancore, odio, scoraggiamento, rabbia, vendetta che occupano la nostra mente, ci tolgono la forza di fare il bene, cioè impediscono di portare frutti di bene. Tutti questi, in un modo o nell’altro, Lui occasioni per potarli. Chi rimane attaccato a se stesso, vuole accontentare le emozioni senza vagliarle, rimarrà ingabbiato da esse. Chi si lascia potare, cioè mette al primo posto la crescita a lungo termine invece della soddisfazione immediata, dovrà affrontare momenti di rinuncia, sconfitte, sofferenze, magari anche delusioni, ma esse lo fanno crescere. Quando le prove arrivano, c’è chi si accascia e si lascia morire e allora secca, c’è chi invece trova ragioni per concentrarsi su ciò che è essenziale, vero, duraturo, il cuore della nostra vita e della nostra fede. Questo ci aiuta a portare un frutto maggiore.

Quali sono in noi i tralci che vanno potati?

Ma come fa le potature? Prima di tutto con la sua parola che è una spada a doppio taglio. “Voi siete mondi per la parola che vi ho annunciato”. La parola di Dio illumina tutti i contesti della nostra vita come la linfa. Bisogna usare spesso la parola di Dio come punto di riferimento delle nostre scelte, schema di verifica delle nostre azioni.

Un altro modo per potarci è dato dalle persone attorno a noi, con la loro critica. A noi viene spontaneo scartarle semplicemente dicendo che loro lo fanno perché sono atei e non cristiani, invece dobbiamo analizzarle bene perché potrebbe essere Dio che si serve della loro voce.

Infine si serve delle debolezze della nostra stessa vita che ogni tanti si sgretola, fa delle falle e ci dice di concentrarci sui frutti veri, non quelli passeggeri.

C’è poi un altro verbo che ritorna 7 volte e che quindi è molto importante: “dimorare”, la versione italiana preferisce usare “restare”. È un verbo che Giovanni aveva già usato all’inizio del vangelo quando i due discepoli avevano chiesto a Gesù: “Maestro dove dimori?” Lo avevano seguito e quel giorno avevano dimorato con lui. Non si parla di una casa fisica ma dell’entrare nel suo modo di vivere, delle priorità che danno senso a quello che facciamo e che richiamano in noi quello che Lui faceva o diceva.

Per comprendere il senso di questo verbo nel suo valore spirituale, basti pensare che noi viviamo a Roma o Brescia o da altre parti, ma il nostro cuore dove abita? A cosa pensiamo sempre? Che cosa dà senso alle nostre azioni? Di chi o cosa siamo così innamorati che condiziona (in bene o in male) tutte le nostre scelte?

Rimanere in Gesù vuol dire rimanere nel suo mondo, nel suo modo di amare e di agire, far sì che io non possa fare nulla senza pensare a Lui ed essere condizionato da Lui. San Paolo dirà: “Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me”.

Dove dimoro io? Cosa ho nel cuore che mi torna sempre in mente?

Mi direte: Come si fa a rimanere attaccati a Gesù in un mondo che ogni giorno ci bombarda con mille messaggi, tutti allettanti, ma tutti contro i valori spirituali? Contrastando o meglio valutando tali messaggi alla luce del “Messaggio per eccellenza” che è il Vangelo. Gesù dice: “Se voi rimarrete nella mia parola, sarete veramente miei discepoli, e conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi”. Allora l’impegno del cristiano è di prendere in mano il Vangelo in modo regolare, conoscerlo sempre di più, lasciarsi provocare da esso, provare a metterlo in pratica anche e soprattutto nelle piccole cose.

Se a qualcuno interessasse una lista di frutti buoni o frutti cattivi, può trovarla nella lettera ai Galati 5,16-23.

 

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