Missionari non operatori sociali
Convegno
missionario italiano
Ercolano
2-3 Giugno 2017
Testimonianza
Il
Signore mi ha fatto la grande grazia di trascorrere 23 dei miei 27
anni di sacerdozio in Missione: (3 nelle Filippine, 6 in Giordania,
12 in India e 1 e mezzo tra l’Inghilterra e il Kenya).
La ritengo una grande grazia perché a tutt’oggi mi rendo conto di
come questa esperienza abbia influenzato la mia vita rendendo la mia
mente più aperta e la mia capacità di comprendere le cose più
elastica.
Ho
lavorato in realtà molto diverse le une
dalle altre, nonostante che siano quasi tutte in Asia, e soprattutto
di realtà in cui il cristianesimo, seppure abbia un forte influsso
sociale, rappresenta però un’esigua minoranza della popolazione:
(2% in India, 3% in Giordania, 10% i cattolici in Inghilterra, 15% in
Kenya).
Da
quando sono rientrato in Italia, tre anni fa,
ho avuto occasione di visitare molte altre realtà missionarie in
quanto delegato delle missioni di lingua inglese, prima e vicario
generale poi.
Oggi
sono stato invitato a portare la mia testimonianza di missionario a
voi che siete coinvolti nei vari gruppi missionari o nelle iniziative
pro-missioni delle nostre opere e parrocchie italiane. Prima di tutto
mi sento di dirvi grazie per quanto siete riusciti a fare e
continuate a fare in sostegno dei nostri confratelli. Andando in giro
per le missioni orionine non si può non notare il tanto bene che si
sta facendo attraverso dispensari, centri di fisioterapia, in alcuni
posti anche piccole unità per operazioni chirurgiche, oftalmologiche
o ortopediche, il sostegno a distanza per i feeding programmes o per
gli studi di cui beneficiano centinaia di bambini sparsi sui 3
continenti. La maggior parte di queste opere sono state possibili
solo grazie al grande contributo vostro e di altri benefattori
europei. Eppure oggi io non sono qui a parlarvi di queste opere. Io
devo ringraziare il Signore anche perché mi ha sempre messo a fianco
dei confratelli con il dono dell’impiantare opere, del costruire,
dell’iniziare attività, grazie perché in questo io invece sono
negato. Se visitate le nazioni in cui io ho lavorato vedrete molte
belle opere, eppure nessuna di queste porta la mia firma, nonostante
che molte siano state costruite mentre ero là.
Io
ho sempre inteso il missionario non
come uno che va ma come uno che è mandato quindi non come uno che
deve inventare progetti ma come uno che si deve inserire in un
progetto, ben più grande, che già esiste. Io ho speso questi miei
23 anni di vita ad ascoltare e a imparare, a parlare e a condividere.
Io ho usato il
mio tempo a imparare la loro cultura, i loro modi di vivere, ad
ascoltare le loro idee circa la politica, ma anche lo sport, la
musica, e a cercare di condividere con loro il bello di appartenere
al Signore.
La
prima esperienza, quella delle Filippine è stata senza dubbio la più
difficile. Ero ingenuo, inesperto, animato da tanti
buoni propositi. C’era tutto da inventare e c’era il bisogno di
inventare in fretta e noi ci siamo messi con i nostri parametri a
pensare cosa fosse meglio. Ho imparato sulla mia pelle che non sempre
quello che è meglio per me corrisponde al vero meglio per la
missione. Ho sbattuto il naso e per un po’ ha sanguinato. Dopo di
me sono arrivati altri un po’ più saggi ed ora la missione
continua bene.
La
seconda esperienza, in Giordania,
è stata più facile perché lì l’opera già esisteva e anche
perché a causa della lingua, l’arabo, per circa un anno ho potuto
fare ben poco. Lì mi sono accorto di come la gente è accogliente,
amica, quando ci si presenta al loro livello senza pretese.
Se
il missionario si presenta come uno che è venuto a dare, la gente
viene e ti giudica in base a quello che gli dai: mi puoi dare quello
che io voglio? Sì? Bene. Non vuoi?
Allora sei inutile e fallito. Siccome poi nessuno riuscirà mai a
fare fronte a tutte le necessità del luogo che sono infinitamente
più grandi di quello che possiamo fare, allora siamo destinati in
partenza a fallire. Infine siccome molte persone sono spinte da
bisogni piccoli ma concreti, e più sono povere, più bisogni hanno,
ma anche più sono illetterati e quindi incapaci a fare progetti a
lunga scadenza di sviluppo (i crampi allo stomaco per la fame mi
impediscono di capire che i semi è meglio piantarli per avere
raccolto l’anno prossimo invece di farci una buona focaccia oggi),
allora non sempre i nostri grandi piani sono compresi dalla gente,
quindi siamo ancora una volta destinati a fallire.
Se
invece il missionario si presenta come uno che è stato mandato a
vivere la vita con loro, se si presenta come uno assetato di imparare
e di conoscere, forse all’inizio molti lo guardano con diffidenza
ma poi si avvicinano e nello scambio di idee è più facile vedere
cosa si può fare, cosa è opportuno, come, dove e quando.
E
così è venuta la terza missione, quella in India. Anche qui c’era
tutto da inventare, ma, spinti anche dalle restrizioni del governo
verso gli stranieri, abbiamo iniziato il lavoro concentrandoci sui
seminaristi. La prima vera opera di carità è nata in India solo
dopo 5 anni, quando ormai avevamo già dei religiosi, dei novizi e
molti seminaristi, e quest’opera era un’opera senza struttura,
cioè attività di dopo scuola e di feeding per i bambini e di lavoro
per le mamme. Ora abbiamo 6 preti indiani e vari chierici, mentre i
missionari rimasti sono solo in 2. Entro il 2022 (fra 5 anni), altri
10 potrebbero essere ordinati (se Dio li mantiene fedeli). Si può
dire che a distanza di 15 anni dalla fondazione la missione è già
gestita da indiani che la reggono in stile indiano.
Papa
Francesco il 26 Maggio scorso ha incontrato le nostre suore e ha
rivolto loro un discorso sul loro essere “missionarie” ed essere
tutte di Cristo e tutte del prossimo. La stampa brasiliana ha
intitolato l’articolo in cui si parlava di tale incontro: “Il
Vademecum di Papa Francesco per i missionari pronunciato nella visita
delle PSMC”.
Lui
è partito dicendo che la missione e il servizio fanno assumere la
dinamica dell’esodo e del dono, dell’uscire da noi stessi. Quanto
distanti siamo dal protagonismo di certe persone che sono capaci di
creare opere grandiose perché hanno molte capacità, ma poi minano
la durata delle loro stesse opere perché le tengono legate alla loro
persona. Ecco allora i 5 punti indicati dal Papa:
1-
“Al missionario è chiesto di essere persona audace e creativa”,
cioè non legato alle strutture e alle tradizioni.
2-
“Al missionario è richiesto anche di essere una persona libera,
che vive senza nulla di proprio”. Chiaro che i missionari vivono
una vita di povertà, ma lo stesso si può dire dell’amor proprio,
del prestigio, del potere?
3-
“Al missionario si richiede di essere una persona abitata dallo
Spirito Santo”. La missione è prima di tutto opera di Dio, non
opera sociale. Anche il sociale lo si fa per testimoniare l’amore
di Dio.
4-
“Al missionario si richiede che abbia una spiritualità fondata su
Cristo”, cioè sul suo esempio, sul suo stile di promozione
dell’altro, di recupero umano, fisico, morale dell’altro, cioè
di tutte le sue dimensioni. Spesso le nostre opere si limitano a dare
un aiuto esterno (la cura della malattia), ma non considerano tutto
il resto.
5-
Al missionario si richiede, infine, di essere profeta della
misericordia.
Vi
rendete conto che il Papa non ha nominato opere, ospedali, scuole,
ecc.? certo che queste sono cose importantissime e lui stesso ne ha
sponsorizzate e ha iniziato attività concrete per i senzatetto a
Roma, ma queste opere sono e devono rimanere strumento di qualcosa di
più importante che è essere il luogo dell’incontro tra il povero,
bisognoso e l’amore di Dio. Spesso le nostre strutture diventano
più importanti delle persone che serviamo.
Io
credo che chi è
animatore di
gruppi missionari nelle parrocchie e opere italiane debba
fare molta attenzione alla promozione delle persone che si vogliono
aiutare in tutti i loro aspetti, compresi quello dell’onore, della
dignità, della formazione. Facciamo attenzione a campagne che
sottolineano la deformità, la miseria, la malattia, come modo per
far colpo sulla sensibilità di chi vede e quindi cercare di cavarne
un’offerta maggiore. Il gioco non vale la candela. Per me essere
parte di un gruppo missionario deve promuovere lo scambio, la visita,
l’apprendimento delle cose belle di quelle nazioni.