Don Orione pensieri per comunità e animatori di comunità
Questo è il testo di una conferenza tenuta alle nostre suore.
Don
Orione è un santo che ha saputo volare alto, è un aereo
quadrimotore e i 4 motori, come sapete, sono Gesù, Maria, Papa,
anime. Sono tutti importanti, se nel volo uno si inceppa, l'aereo può
continuare a volare, ma è pericoloso, bisogna ristabilire
l'equilibrio.
Una
domanda: Lui si è innamorato dei poveri perché era innamorato di
Cristo o viceversa si è innamorato di Cristo perché l'ha incontrato
nei poveri? È difficile rispondere. Entrambe gli atteggiamenti li ha
sempre incontrati fin da fanciullo in sua mamma, poi nei francescani
e in don Bosco. Perciò quando diventa indipendente si rende conto
del pericolo della spaccatura che si sta creando nella società. Non
può accettare un mondo pieno di problemi e che li affronta senza
Cristo; ma al tempo stesso non può accettare uomini di Chiesa che
guardano solo a se stessi ignorando i problemi del mondo.
Ci
vuole una testimonianza di vita che sia risposta chiara ai problemi
(carità), ma che al tempo stesso sia piena di Dio sorgente di questa
carità. Siccome al suo tempo il problema grave è quello della
spaccatura che si è creata tra il mondo operai, la gente semplice, e
il mondo spirituale-religioso, ci vuole un centro di unità: la
Chiesa.
L'unità
è quindi, non solo un aspetto importante, ma essenziale del
processo, lo strumento per far sì che l'amore alle anime e l'amore a
Dio siano veritieri.
Don
Orione ha parole chiare sulla comunità. Ecco stralci da una lettera
del Natale 1934:
Carità!
Carità! Carità! Nulla vi ha di più caro a Gesù Cristo, nulla di
più prezioso della fraterna carità; ond'è che noi dobbiamo, o miei
Cari, adoprare ogni cura per conservarla e accrescerla in noi e nella
Congregazione sì da essere, in Cristo, uno per tutti e tutti per
uno, poiché è solo questo spirito di carità che edifica, cementa e
unifica in Cristo. Al punto che sarebbe da abbandonare ogni
questione, anche fatta per amore della verità e per zelo della
gloria di Dio, se essa dovesse mai, pur un pochetto, inagrire il
nostro cuore e affievolire lo spirito di carità.
(…)
Fratelli e figliuoli miei,
amiamo Iddio sino a fare di noi un'ostia, un olocausto di carità, e
amiamoci tanto nel Signore: niente piace di più al Signore, che ha
detto: “ Vi ho amati...: amatevi ” (Giov. XV, 9-10).
Il grande segreto della
santità è amar molto il Signore e i fratelli nel Signore. I Santi
sono calici d'amor di Dio e dei fratelli. Amare Gesù, amarci in
Gesù: lavorare per far amare Gesù e il Suo Santo Vicario, il Papa;
pregare, lavorare, patire, tacere, amare, vivere e morire d'amore a
Gesù, al Papa, alle anime!
( ) Miei Cari, la Piccola
Opera della Divina Provvidenza dev'essere come una Famiglia in Gesù
Cristo. Stretti dalla carità, uniti di cuore indivisibile in questo
corpo morale che è la nostra Congregazione, oh! quanto maggiori
aiuti avremo dalla mano di Dio, e come ci sentiremo lieti, felici e
forti! La Congregazione prospererà e sarà benedetta pel merito di
tutti che contribuiranno a mantenere l'unione e la pace, - perché la
nostra forza, o carissimi, sta nell'unione, il cui vincolo è Cristo.
Oh! con che gioia ed espansione del cuore allora canteremo l'“ Ecce
quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum!
“La
Piccola Opera della Divina Provvidenza deve essere come una famiglia
in Gesù Cristo”
"Se
i nostri religiosi avessero cuore di figli amanti Iddio tutto
andrebbe a meraviglia: vi sarebbe pace, allegria, progresso materiale
e morale, scientifico e spirituale; si godrebbe un vero Paradiso in
terra"
Interessante
quanto dice Papa Francesco ai seminaristi:
“Io
penso sempre questo: è meglio il peggior seminario che nessun
seminario! Perché? Perché è necessaria la vita comunitaria con i
suoi quattro pilastri: vita spirituale, vita intellettuale, vita
apostolica e vita comunitaria”
Quindi non ci sono dubbi che Don
Orione volesse comunità forti in cui i membri si sentissero in
famiglia, accettati, valorizzati, supportati, ma che al tempo stesso
li rendessero attivi, non vi trovassero la tentazione di adagiarsi,
di chiudersi sui propri bisogni, sui propri comodi. Ma come ottenere
tutto questo?
Alcune parole da una lettera a
Don Adaglio del Febbraio 1923:
A te, raccomando la
pazienza, la pazienza e la tolleranza materna, e molta larghezza di
cuore. Inchinati verso i tuoi fratelli come una madre verso i suoi
figliuoli: con essi oserei dirti di non ragionare con la testa, ma
col cuore.
Anche nel vitto e vestito,
vedi che abbiano il necessario e anche qualche cosetta di più.
Vedi bene che Nostro Signore
moltiplicò non solo il pane, ma anche volle moltiplicare il pesce; a
sfamare quelle turbe, per sé, bastava il pane, ma no, Gesù volle,
nella sua divina carità, moltiplicare anche il pesce.
Andiamo come faceva Gesù:
anche perché essi abbiano di che e come mortificarsi. Non tolleriamo
il peccato di gola, ma non siamo né passiamo per avari.
Saggezza e misericordia unite a
fermezza. Si vede chiaramente che nella mente di Don Orione
l'importante non è tanto l'esteriorità ma la salvezza di tutti a
cominciare da chi sta sbagliando. Il male non si corregge agendo
direttamente su di esso con forza, ma lo si conquista e annienta
costruendo il bene, l'amore. In un'altra lettera, sempre del Febbraio
1923 dice:
“Le vostre cose andranno
bene se avrete più
amore di Dio,
più amore di
Dio, più
amore di Dio,
più amore di
Dio, più
amore di Dio,
più amore di
Dio, più
amore di Dio,
più amore di
Dio!”
Lo
ripete ben 8 volte come se una non bastasse, e per di più le
sottolinea.
Altri
testi:
«Facciamo
regnare la carità con la mitezza del cuore, col compatirci, con
l’aiutarci vicendevolmente, col darci la mano a camminare insieme»
(Lettere II p. 331)
«Quanto
è mai bello amarci, confortarci, compatirci, aiutarci tra noi
nell’amore fraterno che viene da Nostro Signore» (Lettere I p.
438).
«Quando
si ha qualche cosa essere schietti a dirlo fraternamente, con carità,
senza mal’animo… Abbiamo tutti i nostri lati deboli. Tutti,
adunque, dobbiamo avere un manto di amore per compatirci» (Riunioni
p. 77-80)
«Sii
longanime e forte nell’amare, confortare, compatire i tuoi
fratelli» (Lettere I p. 440)
Le
piccolezze si vincono volando in alto, puntando ai valori. Le sue
lettere sono sempre piene di richiami all'amore di Cristo, al
soffrire per lui, al farci santi, all'imitare Maria. Ancora alcuni
passaggi dalla stessa lettera:
“ Voi,
o cari miei figli, avete bisogno di pregare di più, e di fare meglio
le pratiche di pietà e di coltivare
di più lo spirito di pietà
e di umiltà
e di sacrificio!
...
La
prima carità dobbiamo farla a noi stessi; dobbiamo
pregare di più:
lo dico a me, lo dico a voi, lo dico a tutti i nostri: dobbiamo
pregare di più,
coltivare di più
la pietà,
l'umiltà,
la dipendenza,
la docilità di
spirito, e lo
spirito religioso
…
Preghiera,
lavoro e temperanza sono tre perle preziosissime che devono
risplendere sulla fronte e nella vita di ogni
Figlio della
Divina Provvidenza.
Preghiera,
lavoro
e temperanza:
ecco ciò che farà fiorire davvero la nostra cara Congregazione!
pietà,
sacrificio,
mortificazione!
che vuol dire Unione
con Dio -
faticare per le
Anime -
mortificare
il corpo colle sue passioni e mortificare
la gola!
Oratio
- labor
et temperantia:
che vuol dire tutta
la vita dei Figli della Divina
Provvidenza!
In
queste tre virtù c'è tutta la nostra vita!
Non
c'è per noi altra
vita: Non c'è
altra via
per farci santi.
Non c'è altro modo né miglior modo per
amare e servire Dio
= per imitare
Gesù Cristo:
per servire davvero
la S. Chiesa e il Papa
Non
c'è altra né miglior via per imitare
la Madonna, per
esserle divoti
sul serio - per
amarla davvero!
Non c'è altra via per servire
e salvare le Anime!
Non c'è altra via per essere veri
e santi
Religiosi
Ad
esempio, arrivando in una comunità che si è impoverita nei
sentimenti, nelle relazioni interne ed esterne, ecco ciò che scrive
“Io vi ho trovati,
cari miei figli, quasi tutti atrofizzati: buoni figli sì ma troppo
lenti, già invecchiati mentre siete giovani, fiorenti di vita da
poter fare tanto, tanto bene. Non voglio, non devo volervi lasciar
morire in un bicchiere d’acqua… Non possiamo restare più oltre
indifferenti e apatici ma dobbiamo corrispondere a tanta grazia di
Dio… Io non voglio delle statue in congregazione, ma dei vivi e che
camminino in avanti, guardando in alto, a Dio. Vivere vuol dire
espandersi: chi non guadagna perde, chi non avanza indietreggia…”
(10 Marzo 1936. V029T147)
Don
Orione non umilia mai i confratelli, anche se deve rimproverarli li
fa sentire amati, rispettati, fa sentire loro che fa più male a lui
che a loro quello che deve dire, ha pregato per loro, si fida di
loro, da sempre una nuova opportunità di poter fare di più, li fa
sentire parte della famiglia e della missione.
A
Fra Giuseppe scrive:
“Te
lo scrivo col cuore che
mi piange, ma
dopo avere molto, molto pregato per te, caro Fra
Giuseppe. Hai promesso tante volte: esto
vir, non
frasca! sii
fermo, sii uomo, e non
volubile come una frasca!
Preghiera, umiltà, fervore, pietà
soda: frequenza
dei Sacramenti - confidenza coi Superiori, dipendenza
dal Direttore,
cordialità col
Direttore:
aiutalo con tutte le tue forze e cognizioni il Direttore, e non più
capricci, né ostruzionismi, né sabotare il suo lavoro, il che
neanche voglio dubitare che sia capitato, ma lo dico per compiere
tutto il mio dovere di Padre in Gesù Cristo.
Umiltà,
non a parole, ma a
fatti; - pietà
non a parole ma a fatti; - rinnegamento
di te stesso
non a parole, ma a fatti; fuga
dell'oziosità,
non a parole, ma
a fatti;
docilità
d'intelletto,
docilità di
cuore, non a
parole ma a
fatti.
Non
avere paura di abbassarti troppo nel sottometterti, perché si fa più
profitto con un
grano di umiltà
che con una
montagna di superbia.
Per
l'amore di Dio benedetto niente ci deve sembrare vile o troppo
disagevole, e dobbiamo disprezzare noi stessi ed essere reputati
niente e gente buona a nulla, pur di amare e servire Dio, e
guadagnarci il Paradiso.
Ma,
senza umiltà, in paradiso non
si va; e i
golosi in Paradiso non
ci vanno e i
fuggi fatica, i
comodi, quelli cioè che amano le comodità e sono pigri, in Paradiso
non vanno.
Vedete
che nelle ultime due frasi è passato dal Tu al ci, perché non sta
rimproverando ma incoraggiando e quelli sono consigli che vanno bene
a tutti, anche a chi parla.
Quindi
aggiunge:
“Ed
ora finirò, o miei cari figli, in Gesù Cristo Crocifisso.
Perdonatemi se ho afflitto il vostro spirito con questa mia lettera,
e ricordate che non l'ho scritta per confondervi, ma per
avvertirvi nel Signore
e nella carità di padre
vostro in Cristo.
Se le espressioni usate sono forti, guardate al midollo e non alla
scorza, guardate alla sostanza e non alla forma.
Voi
altri di Terra
Santa tenete il
primo posto nel mio cuore, sappiatelo bene, ma badate che dovete
essere quelli che dovete dare il più buon
esempio a
tutta la Congregazione.
Amatemi
nel Signore
come io vi amo nel Signore, e non vi offendete mai, perché, malgrado
che sono malcontento di alcuno di voi, io ho molta stima di tutti
Voi, e ho grande speranza
e fiducia
che d'ora in avanti non mi darete che delle consolazioni,
tutti!”
Un
aspetto importante per i nostri tempi è dato dal binomio
inculturazione/interculturalità, divenuti importanti nella Chiesa
specialmente dopo il Concilio e dopo l'Evangeli Nuntiandi di Paolo
VI. Inculturazione vuol dire che chi va in un ambiente non suo sappia
accogliere gli aspetti positivi della cultura del luogo e li utilizzi
per far passare il suo messaggio. Interculturalità, invece, si
riferisce a situazioni in cui membri di diverse culture si trovano a
vivere insieme. Basta pensare alle nostre comunità dove abbiamo
membri di nazionalità diverse, ma anche di età diverse, formazione
diversa ecc. Spesso, nel passato, l'aspetto culturale rappresentava
uno strumento di forza e di stabilità che poteva anche aiutare la
vita comunitaria: si parla tutti la stessa lingua, si prega nello
stesso modo e quindi non c'è problema. Oggi, questo può creare
qualche problema quando si confonde cultura e tradizione con il modo
di agire o fare le cose o anche la scelta sul cosa fare: “si è
sempre fatto così”. D. Bosco usava l'espressione (poi ripresa da
Don Orione): “Coi giovani si entra con la loro per poi uscire con
la nostra”. Don Orione l'ha tradotta in “farsi calabresi coi
calabresi e veneziani coi veneziani”, che poi non è altro che il
passaggio paolino: “Mi sono fatto tutto con tutti per poter salvare
almeno qualcuno”. Quando si hanno persone di cultura diversa in una
stessa comunità non si può pretendere che siano gli ultimi arrivati
a fare tutto lo sforzo da soli. Bisogna farli sentire benvenuti,
sentire a casa, apprezzare la sua lingua, cultura, idee, modi di
fare. Mi viene in mente l'episodio di Don Orione e il piccolo Silone,
conoscete il racconto fatto da Silone stesso in Incontro con uno
strano prete. C'è anche questo testo:
“Bisogna
pur saper adottare certi metodi, e non fossilizzarci nelle forme, se
le forme non piacciono più, se diventano, o sono diventate,
antiquate e fuori uso... Anche quelle forme, quelle usanze, che a noi
possano sembrare un po' laiche, rispettiamole, e adottiamole,
occorrendo, senza scrupoli, senza piccolezze di testa; salvare la
sostanza bisogna! Questo è il tutto. I tempi corrono velocemente e
sono alquanto cambiati, e noi, in tutto che non tocca la dottrina, la
vita cristiana e della Chiesa, dobbiamo andare e camminare alla testa
dei tempi e dei popoli, e non alla coda, e non farci trascinare...
Allora toglieremo l'abisso che si va facendo tra il popolo e Dio, tra
il popolo e la Chiesa…”
(Lettere vol I pp. 250-251).
È
un po' il discorso dell'educazione col sistema che Don Orione ha
voluto chiamare Cristiano Paterno, perché diceva che se non è
paterno, cioè se l'educatore non è un “padre” non invoglia ad
alcuna crescita, non si prende cura che la persona sviluppi, per
quanto è possibile, tutte le sue potenzialità, ma si limiterà a
pretendere che impari nozioni.
Gli
educatori moderni dicono che non vi è vera educazione senza un serio
“colloquio educativo” tra formatore e formando, ed io dico: non
c'è vera comunità, perché non c'è vero discernimento senza
colloquio tra Superiore e consorelle/fratelli. Ho detto colloquio e
non solo dialogo perché lo ritengo un modo più profondo e più
costante di rapportarsi. Il dialogo dà più l'idea del dialogo
comuntario, tutti assieme (nelle riunioni, quando si è a tavola,
ecc.), la parola colloquio richiama il tu per tu, uno a uno.
Si
potrebbe andare avanti per ore con le citazioni e non ci si
stancherebbe mai di leggere i consigli che dà. I due volumi delle
lettere sono pieni di tali esempi.
Vorrei
che passasse questo messaggio per me fondamentale: Le sorelle della
comunità, della Congregazione sono doni di Dio, i più preziosi. Se
qualcuna sbaglia, dobbiamo conquistarla con amore, con sollecitudine,
con umiltà, rilanciarla al bene. Esse sono strumenti di Dio affidati
alle nostre mani, se le perdiamo o feriamo ulteriormente non solo
abbiamo perso una sorella, ma abbiamo anche privato il Regno di Dio
di uno strumento prezioso. Le forze e il tempo impiegati per l'unità
non sono mai sprecati ma sono investimenti. Siamo tutti persone
consacrati al Signore e abbiamo fatto delle rinunce per questa
scelta, quindi se facciamo degli errori non sono fatti in mala fede
ma dettati da tante circostanze. Quindi c'è sempre tanto positivo su
cui fare leva per lavorare. Alle volte ci sarà bisogno di qualche
aiuto esterno, anche professionale per superare delle limitazioni
psicologiche o caratteriale che la disciplina della formazione non è
riuscita a superare, ma mai perdere la visione positiva.
Permettetemi
un po' di Papa Francesco alla fine:
Papa
Francesco, durante l’incontro con seminaristi, novizi e novizie
nella Sala Paolo VI del 6 luglio 2013, ha detto:
“Vorrei sottolineare l’importanza, nella vita comunitaria, delle
relazioni di amicizia e di fraternità che fanno parte integrante
della formazione. Tante volte ho trovato comunità, seminaristi,
religiosi, o comunità diocesane dove le giaculatorie più comuni
sono le chiacchiere! E’ terribile! Si “spellano” uno con
l’altro… Scusatemi, ma è comune: gelosie, invidie, parlare male
dell’altro. Non solo parlare male dei superiori, questo è un
classico! È tanto comune, tanto comune. Non sta bene farlo:
andare a fare chiacchiere. “Hai sentito… Hai sentito… “. Ma è
un inferno quella comunità! Questo non fa bene. E perciò è
importante la relazione di amicizia e di fraternità. Gli amici sono
pochi. La Bibbia dice questo: gli amici, uno, due… Ma la
fraternità, fra tutti. Se io ho qualcosa con una sorella o con un
fratello, lo dico in faccia, lo dico a quello o a quella che può
aiutare, ma non lo dico agli altri per “sporcarlo”. Dietro le
chiacchiere, sotto le chiacchiere ci sono le invidie, le gelosie, le
ambizioni. Pensate a questo. Non parlare male di altri. “Ma, padre,
ci sono problemi…”: dillo al superiore, dillo alla superiora,
dillo al vescovo, che può rimediare. Non dirlo a quello che non può
aiutare. Questo è importante: fraternità! Ma dimmi, tu
parlerai male della tua mamma, del tuo papà, dei tuoi fratelli? Mai.
E perché lo fai nella vita consacrata, nel seminario, nella vita
presbiterale? Soltanto questo: Fraternità! Amore fraterno”.
Papa
Francesco, parlando alle Clarisse (Assisi, 4 ottobre 2013), ha
invitato al realismo che viene dalla contemplazione di Gesù e dei
fratelli “ad occhi
aperti”, perché “le
idee seccano la testa”.
Raccomandò loro di non essere “troppo spirituali”. “Quando
sono troppo spirituali, io penso alla fondatrice dei monasteri della
concorrenza vostra, Santa Teresa. Quando a lei veniva una suora, oh,
con queste cose… diceva alla cuoca: “dalle una bistecca!”.
E poi continuò parlando della vita di comunità. “Perdonate,
sopportatevi, perché la vita di comunità non è facile. Il diavolo
approfitta di tutto per dividere! Dice: “Io non voglio parlare
male, ma…”, e si incomincia la divisione. No, questo non va,
perché non porta a niente: alla divisione. Curare l’amicizia tra
voi, la vita di famiglia, l’amore tra voi. E che il monastero non
sia un Purgatorio, che sia una famiglia. I problemi ci sono, ci
saranno, ma, come si fa in una famiglia, con amore, cercare la
soluzione con amore; non distruggere questa per risolvere questo; non
avere competizione. Curare la vita di comunità, perché quando nella
vita di comunità è così, di famiglia, è proprio lo Spirito Santo
che è nel mezzo della comunità. La vita di comunità, sempre con un
cuore grande. Lasciando passare, non vantarsi, sopportare tutto,
sorridere dal cuore. E il segno ne è la gioia. E io chiedo per voi
questa gioia che nasce proprio dalla vera contemplazione e da una
bella vita comunitaria”.