Spunti da lettera dell'ex superiore generale Domenicani su vita consacrata
Visto che siamo in cammino verso l'anno della vita consacrata, riporto qui alcune riflessioni prese da una lettera di P. Timothy
Radcliffe OP (ex Superiore Generale dei Domenicani) scritta ai tempi in cui era Generale e anche (se non sbaglio) incaricato CISM.
Lettera all’ordine
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Anche le
nostre comunità non devono essere dei luoghi dove ci accontentiamo
di sopravvivere, ma dei luoghi dove noi troviamo il nutrimento per il
nostro viaggio.
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Come ogni
seme e ogni pianta, così anche la vita domenicana richiede un
proprio ecosistema, se vogliamo viverla ppienamente e predicare una
parola di vita. Non è sufficiente parlarne; noi dobbiamo programmare
attivamente e costruire questi ecosistemi domenicani.
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Il
progetto comunitario non si realizzerà che se osiamo parlare insieme
di ciò che ci tocca più profondamente come esseri umani e come
domenicani.
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La vita apostolica.
La vita
apostolica non è tanto ciò che noi facciamo quanto ciò che noi
siamo.
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Se le
esigenze dell’apostolato implicano che noi non abbiamo più tempo
per pregare e mangiare con i nostri fratelli, condividere la loro
vita, allora, per quanto attivi possiamo essere, non saremo mai
Apostoli nel senso pieno della parola.
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Essere
predicatori non è soltanto parlare di Dio alla gente. É portare in
seno stesso alla nostra vita la distanza tra la vita di Dio e ciò
che c’è di più lontano, alienato, ferito. Noi non avremo una
parola di speranza se non sapremo vedere dall’interno la sofferenza
interiore e la disperazione di coloro ai quali predichiamo. Noi non
avremo per loro parole di compassione se non sappiamo riconoscere
come nostre le loro sconfitte e le loro tentazioni. Noi non avremo
una parola che dia un senso alla vita della gente se non siamo stati
toccati dai loro dubbi e non abbiamo intravisto l’abisso.
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Noi
possiamo divenire persone dalla doppia vita. La nostra vita da
domenicani nelle nostre comunità e la vita vissuta nel nostro
apostolato. Ciò è dovuto al modo in cui percepiamo il nostro
lavoro. Quando ciò si avvera, allora la bella, la dolorosa, la
fertile tensione al cuore della vita apostolica si frantuma, e noi
rischiamo di essere niente di più che persone che lavorano, e
rientrano la sera in un hotel che per caso è religioso.
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La crisi
fondamentale della nostra società, forse è quella del “senso”.
La violenza, la corruzione, e la droga sono i sintomi di un malessere
più profondo, la sete di un senso alla nostra esistenza umana. Per
fare di noi dei predicatori, può darsi che Dio ci conduca in questo
deserto. Là svaniscono le vecchie certezze, e il Dio che conoscevamo
e amavamo sparisce. Dobbiamo condividere la notte oscura del
Getsemani, quando tutto sembra assurdo e insensatoe quadro il Padre
sembra assente. È solo lasciandoci accompagnare là dove niente più
ha senso che noi potremo comprendere la Parola di grazia che Dio
offre al nostro tempo.
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Il
Fondamentalismo che osserviamo così di frequente nella Chiesa di
oggi potrebbe essere una reazione spaventata di coloro che si trovano
all’imbocco di questo deserto e non hanno il coraggio di
sopportarlo. Il deserto è un luogo di silenzio terrificante, che
forse noi cerchiamo di coprire rispolverando vecchie formule
dichiarate con terribile sincerità.
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L’apostolo
è “inviato”. Gli apostoli non hanno richiesto questo lavoro. Noi
doniamo la nostra vita all’ordine per poter essere inviati in
missione per lui. Nella maggior parte delle comunità domenicane
esiste un ritmo regolare in cui si esce al mattino e si rientra la
sera. Ma noi non andiamo a lavorare da soli come un professionista. È
la comunità che mi invia. “Al loro ritorno, gli Apostoli gli
raccontarono tutto ciò che avevano fatto” (Lc 9,10). Alla sera
abbiamo tempo per ascoltare ciò che i fratelli hanno fatto durante
la giornata? Diamo loro l’occasione di condividere le sfide che
essi incontrano nel loro apostolato? Essi sono fuori, nelle
parrocchie, nelle classi, per noi, per rappresentarci. La comunità è
là presente in quel fratello o in quella sorella.
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La vita affettiva.
Forse le
chiese di certi paesi sono vuote perché la predicazione del Vangelo
è consideratacome un esercizio di controllo più che come
l’espressione dell’amore infinito di Dio.
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Non è
sufficiente sperare che tutto andrà bene se recrutiamo giovani
equilibrati e liberi da tutti i disordini emotivi apparenti. Una
perrsona equilibrata, darà la sua vita per un amico? Lascerà le
novantanove pecore per andare in cerca di quella smarrita? Andrà a
bere o a mangiare con le prostitute e i peccatori? Ho paura che
queste siano cose troppo poco “ragionevoli”. Come dice Sant
Agostino commentando il Vangelo: “Mostrami qualcuno che ami, perché
lui capirà ciò che dico”. Solo coloro che sono capaci di amare
potranno comprendere la passione della vita apostolica. Se noi non ci
lasciamo sollevare dall’onda di questo amore, tutti i nostri
tentativi di essere casti finiranno coll’essere un esercizio di
autocontrollo. Possiamo riuscirci, ma col rischio di fare un gran
torto a noi stessi. Possiamo arenarci col rischio di causare
gravissimi troti agli altri.
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Non vi è
amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Ecco a
cosa assomiglia il mistero dell’amore: dare la vita per i propri
amici. Nella relazione di Gesù con i suoi discepoli, con le
prostitute e i publicani, con gli ammalati e i lebbrosi, e anche con
i Farisei troviamo un amore profondamente appassionato. Questa
passione è consumata sul Golgota. Non è altrettanto appassionata di
qualsiasi storia d’amore?
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Noi
renderemo testimonianza al Regno se saremo visti come persone rese
“libere” dalla castità.
Chiediamoci:
Il mio amore per quella donna la rende capace di crescere nel suo
amore e nel suo legame verso suo marito? Oppure la sto legando a me
stesso e rendendola dipendente?
Per
incontrare il Signore ed essere da lui guariti, dobbiamo incarnarci
in quello che è il nostro corpo, con tutte le sue passioni, le sue
ferite, i suoi desideri.
Per
crescere nell’amore sull’esempio di Cristo ci vuole tempo e
questo tempo ci è donato da Dio. Egli ha impiegato dei secoli a
formare il suo popolo, a preparare la via della sua venuta. Dio ci
dona la vita con pazienza, non tutta in un istante.
Finché
non guarderemo in faccia i nostri desideri e non impareremo a
“desiderare bene” noi saremo soggetti al loro controllo, loro
prigionieri.
È
difficile ottenere questa libertà di cuore se si rimane attaccati
alla cultura di mercato nella quale tutto può essere acquistato e
utilizzato, anche le nostre persone.
Se i
nostri desideri sono su una pista falsa non è perché abbiamo
domandato troppo ma perché ci siamo accontentati di troppo poco, di
soddisfazioni troppo minuscole.
L’Eucarestia
ci mostra la vocazione dei nostri corpi umani: farcene dono
scambievole: la possibilità di comunione.
La natura
abborrisce il vuooto. Cose terribili possono capitare a un uomo dal
cuore vuoto. Tutto sommato è meglio correre il rischio di uno
scandalo di tanto in tanto che di avere un monastero, un coro, un
refettorio, pieni di morti. Gesù non ha detto: Io sono venuto perché
abbiano sicurezza e l’abbiano in abbondanza.
Se noi
scegliamo la vita, avremo bisogno di comunità che ci sostengono
nella nostra venuta alla vita, che ci aiutino a crescere in un amore
veramente santo.
Il mistero
redentore dell’amore di Dio non si manifesta in una comunità di
eroi spirituali, ma in una comunità di fratelli e di sorelle che si
incoraggiano a vicenda lungo il viaggio verso il Regno, con speranza
e misericordia.
Può
accadere di peccare e sentire che noi abbiamo annientato la nostra
vocazione, che noi dobbiamo lasciare la congregazione con vergogna. È
quello il momento in cui i nostri fratelli e le nostre sorelle devono
credere per noi nella misericordia di Dio, nonostante che noi stessi
troviamo difficile il crederlo. Se dio può far fiorire l’albero
morto del Golgota, può trarre frutti dai miei sbagli. Quando noi non
ne saremo capaci, forse avremo bisogno dei nostri fratelli per
credere che uno scacco non è la fine del mondo, ma che Dio nella sua
infinita fertilità, può farne una tappa su un cammino di santità.
Le stesse
esigenze di castità si applicano a tutti i fratelli, qualsiasi sia
il loro orientamento sessuale, e di conseguenza nessuno può essere
escluso solo a partire da questo base.
Quando un
fratello giunge alla conclusione di essere omosessuale, è importante
che sappia di essere accettato e amato per quello che è. Forse egli
vive col terrore di essere accusato e rigettato. Questa accettazione
è il pane del suo cammino alla scooperta di una identità più
profonda, quella di figlio di Dio. Nessuno di noi, eterosessuale o
omosessuale che sia, trova la sua identità più profonda nel suo
orientamento sessuale.
Con i
nostri voti noi ci impegnamo a seguire Cristo per scoprire in lui la
nostra identità. Fa parte della nostra povertà l’essere
trascinati aldilà delle piccole identità.
Ogni crisi
può essere un momento opportuno. Può essere feconda. Ogni
esperienza d’amore può diventare un incontro col Dio che è amore.
Innamorarsi può essere il momento in cui frantumiamo il nostro
egocentrismo e scopriamo che non siamo più il centro del mondo.
In questi
momenti noi non possiamo immaginare una vita senza la persona che
amiamo e dobbiamo pregare di ricevereil dono di una vita che non
riusciamo assolutamente immaginare, una vita che può essere solo
dono di Dio. Sulla croce, Gesù non ha atteso una vita immaginabile,
ma l’inconcepibile e abbondante vita che il Padre gli ha donato. In
quei momenti noi non possiamo crearci una nostra vita, dobbiamo
attenderla in dono.
È
talmente difficile abbandonarci nelle mani del Padre, confidando che
questa morte aprirà la via alla resurrezione.
Come
religiosi e sacerdoti, innamorandoci possiamo infliggere ferite
gravissime a noi stessi e agli altri. Alle volte gli altri ci
percepiscono com “senza pericolo”, e noi stessi ci consideriamo
tali. Noi possiamo facilmente abusare degli altri lasciandoci andare
a una forma di “Turismo emotivo”, che ci lascia liberi di
ritornare al convento quando le cose diventano troppo pericolose, ma
che però lasciano l’altro ferito, e la sua fiducia nella Chiesa o
in Dio, danneggiata.
La più
profonda verità di noi stessi è che non siamo soli.
Noi
potremo guardare gli altri non come soluzione ai nostri bisogni e
risposta alla nostra solitudine, ma come esseri di cui possiamo
rallegrarci.
Ai piedi
della croce, dove Gesù dona sua madre e Giovanni l’uno all’altro,
lì nasce la comunità della Chiesa.
La vita di preghiera
La
trasformazione della nostra umanità implica studio e preghiera,
secondo la nostra tradizione domenicana.
Dobbiamo
far molto uso della Parola di Dio. Noi non leggiamo la Parola per
cercarci delle informazioni, noi vi riflettiamo, la studiamo, la
meditiamo, viviamo con essa, la beviamo, la mangiamo.
Questa
parola di Dio lavora in noi, ci rende umani, ci anima, ci forma a
quell’amicizia che è la vera via a Dio.
Liberandoci
dai nostri fantasmi egocentrici e penetrando nell’universo più
vasto di Dio, noi scopriamo che gli altri soffrono violenza e
desolazione.
Costruire
comunità di preghiera esige molto di più che recitare dei salmi ai
vespri. Noi dobbiamo creare un ambiente nel quale possiamo al tempo
stesso parlare e ascoltare, gioire e tacere. È l’ecosistema del
quale abbiamo bisogno per germogliare.
Dobbiamo
rendere viva la preghiera per rendere viva la nostra famiglia.
Importantissimo
è poi il silenzio. Nel silenzio facciamo la scoperta importantissima
e liberatrice che non siamo degli dei ma solo delle creature.
Come
riscoprire questo silenzio in noi stessi e nelle nostre comunità?
Dalla mia esperienza dico che non vi è altro mezzo che prendersi
ogni giorno dei tempi di silenzio alla presenza di Dio.
Ogni
comunità deve riflettere sul modo di creare dei luoghi e dei tempi
di silenzio.
Il segreto
è imparare a fare silenzio assieme. È una comunione nella comune
attenzione. Forse possiamo trovarla quando ascoltiamo insieme
nell’attesa di una Parola che deve venire.